Questa potenza nucleare è stretta tra l’influenza (poco benevola) del vicino Afghanistan e una pesante dipendenza economica e finanziaria da Pechino. Adesso la crisi globale, a partire dall’energia, la sta mettendo in ginocchio e il pericolo è che qualcuno approfitti della situazione. Per esempio, l’Arabia Saudita.
«Bevete meno tè»: è il singolare appello patriottico lanciato lo scorso giugno dal ministro pachistano per la Pianificazione Ahsan Iqbal. La nazione asiatica è infatti la maggior importatrice al mondo della bevanda, popolare in tutti i ceti sociali. Gli Stati con economie deboli devono però pagare le merci acquistate sui mercati internazionali con le riserve di valuta estera pregiata, come dollari o euro. Il Pakistan le sta rapidamente esaurendo: a fine luglio ne restavano a sufficienza per appena un mese e mezzo. L’idea di rinunciare alle proprie tazze quotidiane di «chai» è stata pessimamente accolta dalla popolazione. A preoccupare il premier Shehbaz Sharif, in carica dallo scorso aprile, sono invece le importazioni di combustibili fossili, che nel 2020 avevano coperto oltre il 70 pe cento della domanda di elettricità. Oggi le difficoltà ad accaparrarsi forniture di gas naturale e petrolio, con i prezzi lievitati a causa della guerra in Ucraina, si traducono per gli oltre 230 milioni di abitanti del Paese in frequenti blackout programmati e bollette astronomiche.
Conseguenza della crisi energetica è anche l’inflazione diffusa, cresciuta tra maggio e giugno dal 13,8 al 21,3 per cento. Per tamponare il malcontento popolare, l’esecutivo ha deciso di finanziare almeno un taglio ai prezzi del carburante, mentre si affanna a cercare fonti alternative (e più economiche) per soddisfare la domanda nazionale. L’opzione iraniana è fuori discussione, per non irritare i tradizionali alleati statunitensi e sauditi.
Una soluzione l’ha invece offerta l’Afghanistan. Ogni giorno centinaia di camion entrano in Pakistan, attraverso i tre valichi di frontiera tra le due nazioni. Trasportano carbone, estratto nelle miniere ancora in funzione nel redivivo Emirato, il cui costo è nettamente inferiore a quello disponibile sui mercati esteri. Ma il margine si sta assottigliando: in barba alla solidarietà panislamica, gli studenti coranici tra giugno e luglio hanno alzato il prezzo di esportazione da 90 a 280 dollari la tonnellata. Una certa irriconoscenza è oggettiva. Il servizio segreto pachistano, il famigerato Isi, ha finanziato, addestrato e protetto per decenni i mujahedin prima e i talebani poi. Sostegno che, sottobanco, non si è del tutto esaurito nemmeno quando gli studenti coranici hanno spostato il bersaglio dalla stella rossa sovietica alle stelle e strisce americane. Sul suolo pachistano vivono inoltre ancora oggi tre milioni di afghani, profughi in fuga dai conflitti continui che hanno martoriato la loro terra d’origine.
Divergenze sulla demarcazione precisa del confine tra i due Stati, scomoda eredità del dominio coloniale inglese sull’India, provocano regolarmente qualche sparatoria tra le guardie di frontiera. Una rivalità acuita dalla presenza, proprio sulle impervie montagne che fungono da divisorio, dei talebani pachistani. Animati dalla stessa ideologia islamista ma indipendenti dai loro più famosi vicini, i Tehrik-e-Taliban Pakistan sono in guerra dal 2004 con il governo centrale di Islamabad, un conflitto che ha già provocato 40 mila vittime. Dopo che i talebani afghani hanno riconquistato il potere lo scorso anno, il Pakistan ha chiesto loro di far sloggiare i soldati dalle loro basi di confine. Gli eredi del mullah Omar hanno risposto picche, offrendosi invece di mediare un accordo di pace. I colloqui hanno prodotto nel giugno scorso un precario cessato il fuoco, che potrebbe però saltare in qualunque momento. Intanto, Islamabad e Pechino hanno aperto alla possibilità di coinvolgere Kabul nel Corridoio Economico Cina-Pakistan (Cpec).
Il Cpec, diramazione principale della Belt and Road Initiative cinese, è la più visibile manifestazione della longa manus di Pechino nell’economia pachistana e nella crisi di quest’ultima. Faraonico agglomerato di progetti infrastrutturali, mira a collegare il confine sino-pachistano con i porti di Gwadar e Karachi sull’oceano Indiano. Per sbloccare così nuove rotte su cui far viaggiare le merci cinesi, ma anche per portare avanti l’accerchiamento del comune rivale indiano. Gli investimenti necessari, che le previsioni ufficiali stimano oggi a 62 miliardi di dollari, sono stati portati avanti in prevalenza da joint venture tra il Dragone e il Pakistan. Con le tasche vuote però, Islamabad ha dovuto finanziare la sua parte ricorrendo a prestiti fuori sede tra il 2016 e il 2021: ecco che il suo debito estero è raddoppiato e così la quota dovuta alla stessa Cina, in veste di finanziatrice, sfiora ormai il 30 per cento. Quest’ultima, storica alleata e protettrice del Pakistan, si è dimostrata pronto ad aprire i cordoni della borsa anche in occasione della crisi economica degli ultimi mesi, concedendo un prestito da oltre due miliardi di dollari.
La decisione delle parti di non rivelare il tasso d’interesse del finanziamento impensierisce però gli analisti, che sospettano che Pechino stia stringendo un altro po’ il laccio della trappola del debito. Se così fosse il pesce piccolo rischia di fare la fine dello Sri Lanka, che ha ufficialmente dichiarato bancarotta a luglio, vittima del suo stesso entusiasmo eccessivo per le promesse cinesi. Non aiuta che l’entusiasmo della Cina per il progetto con gli amici pachistani si stia raffreddando. I costi del carburante alle stelle e l’inflazione dilagante stanno facendo levare le tende alle imprese cinesi. Attacchi mortali contro i loro lavoratori da parte dei separatisti di etnia baluci, nella regione sudoccidentale del Pakistan, hanno irritato Pechino per l’incapacità del socio, ridotto al ruolo di gregario, di garantire la sicurezza dei propri cittadini.
Shehbaz Sharif e i suoi si danno comunque da fare per risolvere i problemi di cassa. Sono riusciti a siglare un accordo con il Fondo monetario internazionale per riattivare un programma di prestiti da 6 miliardi di dollari, con una prima tranche da almeno un miliardo in rampa di lancio. Che però sta tardando a decollare, tanto che lo stesso premier si è lamentato a inizio agosto definendo il Pakistan «asservito economicamente» all’istituzione finanziaria. L’Arabia Saudita dal canto suo ha promesso a Islamabad altri 4 miliardi, alcuni dicono in cambio delle ben addestrate truppe pachistane concesse in comodato d’uso. Risolvere la crisi economica interna è una priorità per Shehbaz come politico, oltre che come uomo di governo. Il suo rivale e predecessore Imran Khan, che per quattro anni ha avuto il potere, sta cavalcando il malcontento popolare e il suo partito ha strappato una vittoria a sorpresa alle elezioni provinciali del Punjab a luglio. Ex star del cricket, populista e islamista, Khan è stato destituito ad aprile con un voto di sfiducia. Dietro al quale era nascosta la fine della sua luna di miele con i militari, vera eminenza grigia – o meglio, «mimetica» – del Pakistan.
«L’esercito pachistano esercita ancora un’enorme influenza sulla vita politica nazionale e in questo momento prevalgono correnti e orientamenti vicini al primo ministro Shehbaz. Anche se l’attuale crisi dovesse rafforzare le forze islamiste, queste dovranno comunque fare i conti con i militari» conferma Francesco Valacchi, cultore presso Scienze Politiche all’Università di Pisa. Il Pakistan resta per ora in bilico sul filo del rasoio. Se dovesse perdere l’equilibrio, le conseguenze si potrebbero far sentire fino a qui. Sotto forma di nuove ondate di migranti che si uniranno alle già decine di migliaia che ogni tanto tentano la fuga da miseria e violenze sulle rotte per l’Europa. O di 165 testate nucleari che potrebbero prendere il largo – speriamo mai il volo – dagli arsenali di Islamabad.