A quasi dieci anni dalla sua ascesa, il presidente egiziano governa un Paese provato dall’emergenza economica, peggiorata dall’inflazione come dai troppi interessi dei militari. Ma non indietreggia su fastosi progetti e nuove alleanze.
La nuova capitale egiziana, a 45 chilometri a est del Cairo, è un progetto grandioso, faraonicoa nuova capitale egiziana, a 45 chilometri a est del Cairo, è un progetto grandioso, faraonico. È il simbolo del potere sfarzoso e della rappresentazione spettacolare dell’autorità del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Si estenderà su 700 chilometri quadrati e ospiterà i principali dipartimenti, i ministeri e le ambasciate straniere. Non solo. Ci saranno laghi artificiali, circa 2 mila scuole, 18 ospedali, 1.250 moschee e chiese, uno stadio da 93.440 posti, 40 mila camere d’albergo, un grande parco quattro volte più grande di Disneyland. Sarà una città «intelligente » e avrà oltre seimila telecamere a monitorare le strade. Sul suo sito web è stato lanciato un concorso per sceglierne il nome. In principio doveva occuparsi della sua costruzione la Capital City Partners, una società dell’uomo d’affari degli Emirati Mohamed Alabbar. Ma nel settembre 2015, l’Egitto ha annullato l’accordo. Nello stesso mese però ha firmato un nuova intesa con la China State Construction Engineering Corporation che ha concordato nel 2017 di sviluppare solo il central business district della città. Ciò ha lasciato al governo egiziano il compito di finanziare la maggior parte delle costruzioni a un costo da capogiro, sebbene non dichiarato. L’Egitto ha questi soldi?
Sotto la presidenza di Al-Sisi, molto si è già speso per le infrastrutture. Progetti faraonici portati avanti soprattutto per nascondere la profonda crisi economica del Paese. Il rais ha realizzato case, nuove città, strade, ponti. Tutto questo mentre decine di milioni di persone fanno fatica a mettere il cibo in tavola. La classe media ormai evita di andare dal dentista per risparmiare, molti hanno ridotto il consumo della carne a una o al massimo due volte al mese. In un anno la sterlina egiziana si è deprezzata di quasi il 50 per cento rispetto al dollaro, il prosciugamento della valuta estera e l’aumento dell’inflazione hanno falcidiato il potere di acquisto. I sussidi – sebbene ora ridotti – pesano sui conti pubblici. La carenza di dollari è stata in parte innescata dall’invasione dell’Ucraina, che ha portato gli investitori a prelevare 20 miliardi di dollari dal Paese. Gli investimenti esteri, al di fuori del settore del petrolio e del gas, dove ha un ruolo strategico la nostra Eni, sono irrisori. L’Egitto produce circa 560 mila barili di oro nero al giorno. Le sue esportazioni sono il greggio, il cotone grezzo, i filati. Mentre importa petrolio raffinato, grano, macchine e mais da Cina, Russia, Arabia Saudita, Stati Uniti e Turchia.
Gli analisti ritengono che il tracollo sia dovuto all’incapacità di attuare le riforme strutturali. Tra queste, il ridimensionamento del ruolo dei militari nell’economia. Dai distributori di benzina alle serre, ai pastifici, ai cementifici, agli alberghi, ai trasporti. È un blocco di potere che pervade tutto. Supervisiona anche centinaia di opere infrastrutturali statali, come la citata nuova capitale o le città nel deserto. Il 16 dicembre 2022, il Fmi ha approvato un prestito di 3 miliardi di dollari. Ora però sembra difficile ottenerne un altro. Il Fondo richiede riforme, come il ringiovanimento del settore privato, la fine dei privilegi delle società di proprietà militare, la riduzione del debito pubblico e il passaggio a un tasso di cambio flessibile. «In Egitto tutto è monopolizzato dai militari» conferma a Panorama Karim Mezran, analista dell’Atlantic Council di Washington. «E le imprese faraoniche servono a mascherare la crisi in atto, come il raddoppio del canale di Suez…». Ma si stima che ben il 60 per cento degli egiziani sia al di sotto o vicino alla soglia di povertà.
Per nascondere le crepe del regime il rais è ricorso anche a un attivismo diplomatico esagerato. Il 3 aprile ha incontrato a Gedda il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ma oltre ai sorrisi di circostanza Al-Sisi ha ricevuto un secco no alla richiesta di ulteriori aiuti. Il 13 settembre scorso era già volato in Qatar, per chiedere una mano al suo acerrimo nemico vicino ai Fratelli Musulmani. A novembre scorso a Sharm El Sheikh si è tenuta la Cop 27, preziosa vetrina per accreditarsi nel salotto internazionale. Il presidente già da tempo ha pianificato strategie per ampliare la sua influenza nella regione, come in Libia. E il suo incessante lavorìo diplomatico prevede a breve anche il ripristino delle relazioni con la Turchia e con l’Iran, conseguenza dell’avvicinamento di quest’ultimo all’Arabia Saudita. Ma ancora non gli basta. Tradendo l’alleanza con gli Usa in un documento top secret, ottenuto dal Washington Post, si parla di presunte conversazioni tra Al-Sisi e alti funzionari militari e si fa riferimento a piani per fornire alla Russia 40 mila razzi.
Questa mossa forse perché il rais ha ritenuto che stesse crescendo l’influenza di Mosca in Medio Oriente o perché in debito a causa delle importazioni di grano. L’Egitto è il più grande importatore di questo cereale al mondo e l’80 per cento proviene dalla Russia e dall’Ucraina. Tra l’altro il neo-faraone si è già trovato alleato in Libia con lo zar Vladimir Putin: entrambi hanno sostenuto il generale Khalifa Haftar. «Da quando Al-Sisi ha avuto una risposta negativa dai sauditi ha iniziato a flirtare con la Russia e la Cina. È come se si stesse arrivando a una resa dei conti finale» spiega ancora Mezran. «Inoltre l’Egitto avvicinandosi alla Russia è come se chiedesse agli Usa: “Se smetto di parlare con i russi tu cosa mi dai in cambio? Ha provato anche ad avere prestiti dal Qatar e sembra che gli sia riuscito, mentre gli Emirati si sono tirati indietro».
Da non dimenticare anche un altro tavolo negoziale in cui è coinvolto Il Cairo, complicato ora dalla crisi in Sudan, ovvero la disputa sulla diga del Gran Rinascimento etiope. Insomma un dinamismo nei rapporti esteri che però non sempre paga. Per tenere in piedi il regime, la macchina della repressione marcia a tutta velocità. «Aumentano le pressioni su liberali, giornalisti e politici, le carceri sono stracolme» dice l’analista. E il pericolo è quello di un’implosione dello Stato. «In un Paese al tracollo può succedere di tutto, una guerra civile endemica, disordini per strada, addirittura la fuga di 110 milioni di egiziani sulle coste europee». In Italia, dei 105.129 migranti arrivati a bordo di imbarcazioni nel 2022 ben 20.542 hanno dichiarato di essere cittadini egiziani. Si tratta del gruppo più ampio tra quelli indicati dal ministero dell’Interno: quasi 1 su 5 è fuggito dal regime di Al-Sisi. Nel 2023, invece, fino al 20 aprile sono 3.703 gli egiziani giunti su 35.056 migranti totali. La situazione dunque è incandescente. Tra l’altro in Egitto quest’anno ricorre il decimo anniversario del colpo di Stato che ha portato al potere l’ex generale. Lui aveva promesso che avrebbe rilanciato l’economia e la nazione. Ma ora gli egiziani non hanno molto di cui rallegrarsi e Al-Sisi non può rimandare all’infinito il confronto con il suo popolo.