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Alfredo Mantovano a muso duro contro i magistrati: «Minano la sovranità popolare»

Alfredo Mantovano a muso duro contro i magistrati: «Minano la sovranità popolare»

Il sottosegretario Mantovano denuncia la deriva della magistratura: a rischio l’equilibrio tra poteri e la centralità della sovranità popolare.

Una denuncia affilata e articolata. Pronunciata con voce ferma davanti al gotha dell’avvocatura italiana, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense. Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, uomo chiave del governo e magistrato di lungo corso, ha puntato il dito contro una deriva della giurisdizione che, a suo dire, non è più solo un episodio isolato ma un «cronico sviamento della funzione giudiziaria».

Parole pesanti. Non una polemica contingente, ma un atto d’accusa che chiama in causa l’equilibrio stesso fra poteri dello Stato. E per tutta risposta l’Associazione nazionale magistrati, dopo la polemica con le forze di polizia, se ne esce ora con un «se fosse vero si può ricorrere alla Corte costituzionale». Ovvero le toghe chiedono di risolvere un conflitto aperto sul piano politico ai giudici costituzionali. La conferma, quindi, di quello che Mantovano fino alla replica stizzita dell’Anm riteneva un «rischio»: che la magistratura «percepisca sé stessa non come chi è chiamato ad esercitare lo “jus dicere (esercitare la giurisdizione, ndr)” nel caso concreto, ma come parte di un establishment incaricato di arginare la pericolosa coerenza fra manifestazione del voto, rappresentanza politica e azione di governo». Ed ecco la visione delle toghe dal punto di vista del sottosegretario: «Secondo quest’ottica, l’argine va posto anche contro le riforme costituzionali, a prescindere dal fatto che queste siano parte del programma con cui una coalizione ha ottenuto il consenso degli elettori, come accaduto nel settembre 2022». Mantovano ritiene l’etichetta «toghe rosse» ormai superata: «Quella narrazione aveva un senso 30 anni fa, oggi sarebbe macchiettistica. Qui c’è qualcosa di più grave. Un potere che deraglia dai propri confini e interviene non solo sull’interpretazione delle norme ma anche sulla determinazione delle politiche sui temi più sensibili e su chi deve applicarle». Ed ecco il cuore del problema: la giurisprudenza «creativa», che, secondo Mantovano, è ormai una prassi consolidata. «Si fa ricorso a fonti internazionali ed europee», afferma il sottosegretario, «per dare letture estensive, talvolta arbitrarie, delle norme costituzionali. È una tendenza che erode gli spazi di espressione diretta della sovranità popolare».

Un esempio? «Pensiamo alle leggi in materia di immigrazione, sistematicamente disapplicate». E i loro estensori lo «rivendicano nei convegni e negli scritti». Secondo Mantovano il fenomeno riguarda tutte le giurisdizioni, a prescindere dalle appartenenze ideologiche. «Ritrovare l’equilibrio è indispensabile», ha ammonito, «e il ruolo dell’avvocatura è fondamentale». Nel mirino non c’è solo l’interpretazione delle norme, ma l’intera dinamica di produzione legislativa. «Assistiamo», ha denunciato ancora il sottosegretario, «a tre modalità di aggiramento della volontà popolare attraverso la via giudiziaria: la creazione di norme per via giurisprudenziale; la sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo; la selezione per sentenza di chi deve governare». Un’accusa che, tradotta, significa: la politica viene svuotata dei propri poteri. E il diritto multilivello, quello che mette insieme norme nazionali, europee e internazionali, diventa un supermercato da cui attingere per legittimare qualunque orientamento culturale, anche in contrasto con la volontà espressa dagli elettori. Il problema, ha insistito Mantovano, non è l’Europa in sé: «Ma la nostra Repubblica deve continuare a preservare il suo fondamento. Per noi la sovranità popolare non è un concetto superato, è la base del rispetto che il potere pubblico deve ai cittadini. Ed è anche il fondamento della vincolatività delle regole che ai cittadini viene chiesto di rispettare».

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è subito inserito sullo stesso binario: «Non ho mai creduto, nemmeno quando ero in magistratura, a questa classificazione in toghe rosse, bianche, nere o azzurre. È sempre stata una semplificazione che prendeva spunto da un parallelismo politico. Sono certo che il collega Mantovano abbia voluto dire che oggi, nel tramonto delle ideologie, le dinamiche obbediscono a criteri di potere, non più a dottrine politiche». Quella che emerge, insomma, è una trasformazione del conflitto fra poteri: non più ideologico, ma funzionale.

E la risposta dell’Anm, demandata al vicesegretario Stefano Celli, ha il sapore di una sfida: «Vi sono valutazioni che spettano a organi previsti dalla legge. Se il governo ritiene di essere limitato, e se davvero qualcuno ha esercitato un potere che non è suo, si può ricorrere alla Corte costituzionale per il conflitto di attribuzione».

Ma il punto, al di là del botta e risposta, resta quello sollevato da Mantovano: dove finisce l’interpretazione e inizia la creazione normativa? Il pericolo è che ogni riforma venga giudicata prima ancora della sua approvazione. E che il giudizio, soprattutto quello dei cittadini, non conti più. Articolo 101, il gruppo di magistrati nato dopo il caso Palamara in polemica con le correnti della magistratura, infatti, ha reso noto di aver deciso «di non aderire al progetto di costituzione di un Comitato referendario destinato a operare in contrasto alla riforma governativa». I rappresentanti di Articolo 101 sosterranno, invece, «la riforma nella parte in cui prevede il sorteggio dei consiglieri superiori, unico antidoto alle degenerazioni correntizie e unica strada per il recupero della credibilità offuscata della categoria». Una scelta che, di certo, farà storcere il naso alle storiche correnti. Quelle che ritengono di poter legiferare.

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