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America vs Cina, quando il gioco si fa duro

America vs Cina, quando il gioco si fa duro

La vera realtà politica globale è una nuova, poderosa contrapposizione tra super-blocchi. Dove non sono ammesse voci fuori dal coro.


Mettere a fuoco i contorni della nuova Guerra fredda può rivelarsi un esercizio non banale per i leader occidentali. Alcuni di essi, per questioni anagrafiche, non hanno vissuto nemmeno la prima, storica fase di contrapposizione tra i blocchi. Al più, a distanza di tempo, possono aver orecchiato qualche aneddoto in famiglia e tra amici e conoscenti. Della contrapposizione tra grandi blocchi ideologici, capitalismo contro comunismo, non hanno avuto esperienza diretta. In compenso, hanno conosciuto la pax americana che si estendeva solitaria e a lungo incontrastata su tutto il globo, il decentramento industriale dell’Occidente, l’allungarsi delle filiere produttive, il rito di Davos che si consuma annualmente e il business. Con chiunque, sempre e ovunque: anywhere, with anyone. Altri, i cosiddetti «tempie bianche», hanno visto abbastanza primavere da ricordarsi nitidamente tutta la Guerra fredda, o quasi, ma non riescono a distaccarsi dal quel ricordo e tendono a immaginarsi il presente come una copia conforme del passato.

Sta di fatto che adeguarsi alla nuova competizione tra mega-blocchi non è facile. A non essere declinate nella loro pienezza sono anzitutto le regole d’ingaggio. A guidare, si dirà, non possono che essere i capi delle nuove entità politiche. Cioè Washington e Pechino, ciascuno dei quali responsabile per i rispettivi club. Quello del capitalismo democratico e quello del capitalismo autoritario, secondo un’azzeccata definizione di qualche anno fa del politologo israeliano Azar Gat. La logica è quella del «G2», cioè di una spartizione tra due poderose compagini, con alcune aree grigie, non troppe per il vero, rimaste fuori dai blocchi.

Per tacere delle frizioni all’interno delle due realtà contrapposte: si vedano le abituali schermaglie commerciali tra le due sponde dell’Atlantico, o la penetrazione cinese in Asia Centrale che rosicchia spazio, affari e influenza ai russi. Esaurita la questione della primazia all’interno dei blocchi, resta poi sul tavolo il nodo delle deleghe secondarie. Quanto spazio di manovra hanno gli altri membri del club? Il passato può offrire qualche spunto, ma non sempre. Si prenda l’Unione europea: durante la Guerra fredda, non era nemmeno prevista dal momento che venne istituita solo con il Trattato di Maastricht del primo novembre 1993. Eppure nelle grandi questioni economiche come le politiche commerciali – per tacere delle barriere tariffarie – e l’antitrust gioca un ruolo molto rilevante, se non decisivo. «Team America», specialmente ora con Washington alle prese con le presidenziali di novembre, non fissa prescrizioni di dettaglio.

Al contempo, c’è una forte attenzione ad assicurare un buon livello di coordinamento di fondo. Il maxi scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Russia ha per esempio visto un coinvolgimento attivo da parte della Germania, che ha contribuito al negoziato consegnando a Mosca un sicario dell’intelligence russa prigioniero in Germania. Si badi: a rilevare non è tanto la scelta di procedere allo scambio, inevitabilmente controversa, bensì la sua meccanica interna. Alle strette, infatti, Berlino ha assecondato zio Sam, segnalando di avere ben chiare le regole del «G2». Si prenda infine la recente missione di Giorgia Meloni a Pechino. Bill Emmott, in passato direttore dell’Economist e oggi presidente dello IISS di Londra, il sancta sanctorum anglo-americano delle questioni di sicurezza e difesa, ha espresso forti riserve sulla natura degli accordi di cooperazione siglati in occasione del viaggio del vertice dell’esecutiva in Asia.

Emmott nota infatti che questi accordi insistono su aree molto sensibili agli occhi di Washington (e di Tokyo) come intelligenza artificiale e cantieristica, e ha pubblicamente esortato Roma a rinnovare il suo impegno al fianco dei suoi partner facendo partecipare la nostra portaerei Cavour a esercitazioni navali «Freedom of Operation» nel mare Meridionale cinese. Proprio lì, cioè, dove l’assertività di Pechino contro le Filippine ha raggiunto la soglia di guardia. Sarebbe esagerato sostenere che si tratti di un attacco diretto alla presidente del Consiglio, o di un’accusa di voltafaccia. Tuttavia è il segno di un presidio attento da parte di un interprete molto credibile del Deep state angloamericano, per evitare un «rompete le righe» nel bel mezzo di un’aspra tensione geopolitica tra blocchi. Il G2 non avrà forse regolette minute, ma i principi di fondo sono inesorabili.

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