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Ana Blandiana: «Io contro Ceausescu, armata solo di poesia»

Ana Blandiana: «Io contro Ceausescu, armata solo di poesia»

L’oppressione vissuta in Romania sotto il dittatore, che fu rovesciato nel 1989. Una delle maggiori intellettuali del Paese, della quale in Italia è da poco uscito un romanzo, racconta la sorveglianza del regime e gli espedienti di chi cercava di continuare a esprimere un pensiero libero. E ricorda: «La sera, in casa, suonava il telefono e una voce ripeteva: Perché fai queste cose?».


«Ero a Praga nei mesi della Primavera, nel 1968: ho capito allora la grande differenza tra una libertà vissuta in modo indifferente, statico e l’entusiasmo popolare, la passione che si respiravano in quello spiraglio di democrazia ritrovata. Solo nel buio la libertà diventa luminosa e, in quel momento, era una forza collettiva, quasi magica». Ana Blandiana, capofila di quella generazione di scrittori e artisti che si afferma nella Romania degli anni Sessanta, ricorda con nostalgia e un filo di commozione quella breve e intensa fiammata, che sembrò illuminare di un bagliore fugace il grigio uniforme dei Paesi oltre la Cortina di ferro. In patria
è considerata un monumento nazionale. E non solo per il suo talento letterario, che l’ha più volte portata in odore di Premio Nobel,
ma come testimone coraggiosa della resistenza al regime comunista di Nicolae Ceausescu. Nata nel 1944 a Timisoara, enclave di passato asburgico nell’estremo est del Paese, con all’attivo 28 libri di poesie e poi saggi, poemi e un romanzo, membro dell’Accademia europea e di quella Mondiale di Poesia (Unesco), è conosciuta e tradotta anche in Occidente a partire da una vicenda che ha dell’incredibile, come ci racconta in questa intervista, in occasione della presentazione in Italia del suo unico romanzo, Applausi nel cassetto (Elliot Edizioni, traduzione di Luisa Valmarin), entrato nella cinquina del Premio Strega europeo. Era il 1984 quando la rivista romena Amfiteatrul (Anfiteatro) pubblica quattro sue poesie che vengono subito censurate per le evidenti allusioni critiche al regime. Un giornalista inglese del quotidiano The Independent, Kevin Jackson, pubblica uno di questi testi intitolato Tutto, un elenco di parole quasi indecifrabili per uno straniero, ma che a un romeno rimandavano a situazioni ben conosciute di vita quotidiana. La poesia era corredata da una caricatura del dittatore e da un ampio apparato esplicativo. Si può immaginare l’effetto dinamitardo di quella pagina, che suscita un clamore immediato in Occidente e incrinando la facciata «buonista» del comunismo in versione romena. «Ogni parola racchiudeva una storia» racconta Ana Blandiana. «Per esempio, “benzina” rimandava alle interminabili code di auto alle stazioni di servizio. Il carburante non si trovava sempre, era razionato, e alle volte si doveva aspettare anche 24 ore per fare rifornimento. Si creavano allora situazioni quasi «epiche»: rivalità, litigi, ma anche gesti di amicizia. Alcuni lasciavano le chiavi ai vicini di coda per assentarsi qualche ora a sbrigare commissioni. Altre parole della poesia erano un’autentica parodia del dittatore. Per esempio, “gatti” allude a un avvenimento tragicomico: Ceausescu era in visita
a uno storico ospedale di Bucarest in compagnia, come era solito, dei suoi due giganteschi dobermann, quando, all’improvviso, sbucano alcuni gatti che li aggrediscono facendoli fuggire terrorizzati. Una scena che venne subito interpretata tra i romeni come metafora della rivolta contro il potere. Il presidente la prese malissimo: in uno dei suoi famosi attacchi di rabbia ordinò che l’ospedale venisse raso al suolo, anche se era un palazzo del Settecento protetto dalle Belle arti».

Com’era il rapporto di scrittori e artisti con il regime?
«Ha seguito le fortune e sfortune del potere politico, con alti e bassi di terrore, a seconda della situazione internazionale a cui Ceausescu cercava di conformarsi. Per quanto mi riguarda, ho subìto tre periodi di interdizione dalle pubblicazioni, ma per circa 20 anni ho potuto scrivere e pubblicare diversi libri. Il periodo aureo è stato subito dopo la primavera di Praga, di cui anche Ceausescu, con un atto di coraggio, cercò di seguire le orme. Ma poi, con la sua visita in Cina e Corea del Nord nel 1971 e le conseguenti Tesi di luglio, ritornò la chiusura. Per noi quei tre anni sono stati il nostro modo di esercitare la libertà, una radura in mezzo al bosco».

Lei, a differenza di molti colleghi scrittori, ebbe anche la possibilità di venire in Occidente.
«Nel 1968 fui invitata a Parigi al Teatro delle nazioni per un recital di poesia di una settimana: un poeta per ogni Paese. La sera in cui sono salita sul palcoscenico c’era anche Eugenio Montale, in rappresentanza dell’Italia. Avevo solo 24 anni e lo conoscevo
di nome: lo ricordo come un signore gentile, molto riservato. Solo più tardi mi sono resa conto di chi era davvero».

Il periodo di maggior violenza del regime è stato dopo il 1980, con la demolizione di chiese, la carestia, il freddo. Applausi nel cassetto risale a quel periodo… «Ho iniziato a scrivere prosa in un momento in cui non era più possibile per me un’esperienza artistica della realtà, troppo brutta per diventare poesia. Nel 1983 era diffusa tra gli scrittori una forma di «autocensura» ancora più pericolosa di quella imposta dal regime. Fu allora che, per essere libera, ho deciso di scrivere pur sapendo in anticipo che non avrei avuto la possibilità di pubblicare. In questo senso il mio romanzo Applausi nel cassetto l’ho sempre pensato come un libro postumo».

Come viveva una scrittrice interdetta dal regime?
«Gli anni Ottanta sono stati per me un periodo di isolamento e paura. Il telefono era sempre scollegato, suonava solo ogni tanto di sera ed era un’esperienza angosciante perché dall’altra parte del filo c’era una voce come di bambino che mi ripeteva: “Perché fai queste cose, per essere superiore a Elena?”, probabilmente si riferiva alla moglie di Ceausescu. Riattaccavo e suonava di nuovo. Era una forma di pressione psicologica. Fuori di casa stazionava sempre l’auto di un agente della Securitate, una donna, a orari d’ufficio, otto ore al giorno, anche in pieno inverno».

C’erano dei momenti in cui vi incontravate di nascosto con altri scrittori?
«Quando l’approvvigionamento alimentare divenne un problema quotidiano i medici erano gli unici ad avere il privilegio di essere pagati in natura dai pazienti e prese inizio da loro la consuetudine di organizzare pranzi invitando scrittori, musicisti, artisti. Queste agapi si sono trasformate, stando di più insieme, in un’occasione di scambi di idee, di confronto. Erano isole di normalità sopravvissute in modo bizzarro, anche se non ho mai saputo se e quanti dei partecipanti non abbiano poi riferito alla Securitate quanto ci dicevamo».

Delle sue poesie circolavano copie clandestine, del tipo «samizdat»?
«È successo con quelle della raccolta di Amfiteatrul, migliaia di copie manoscritte. Ma è stato l’unico caso di “samizdat” romeno, mentre in Cecoslovacchia o in Unione sovietica c’era invece una forte tradizione».

Suo padre era un prete ortodosso: che rapporti ha avuto con lui?
«Posso dire che è stato per me un educatore fino a quando l’hanno incarcerato, seguendo la sorte di molti altri religiosi. Molto più tardi, dopo la rivoluzione del 1989, ho voluto creare la prima fondazione al mondo per costituire un “Memoriale sul comunismo” presso il famigerato carcere di Sighet, nell’estremo nord del Paese, dove sono transitati quasi tutti gli uomini politici del periodo
tra le due guerre mondiali. Per me è stato il modo più intenso di testimoniare il mio legame con lui».

In una delle poesie pubblicate dalla rivista Amfiteatrul lei scrive: «Io credo che siamo un popolo vegetale. (…) Chi ha mai visto un albero in rivolta?» Lo stesso interrogativo ritorna nel suo romanzo…
«La domanda che mi facevo allora era: com’è possibile che sopportiamo tutto questo? Perché non c’è una rivolta? Adesso io credo che dipenda dal senso dell’ironia che abbiamo noi romeni, dall’abitudine a scherzare anche sugli eventi più tragici. Sfogavamo la nostra frustrazione solo attraverso un atteggiamento di disprezzo per quelli che erano più forti di noi, per chi ci dominava. Bizzarra psicologia: sul momento forse ci ha salvato, permettendoci di sopravvivere, ma forse ha reso impossibile una vera rivoluzione».

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