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Antonio Bassolino: «Voglio dare una mano a Napoli»

Antonio Bassolino: «Voglio dare una mano a Napoli»

Intervista all’esponente del Pd, che viene dato come probabile candidato sindaco della sua città: «Sono desideroso di vedere chi, cosa e come si potrebbe mettere insieme per costruire una squadra all’altezza di questa sfida».


Buongiorno onorevole Bassolino.
(Ride)… «Non sono più onorevole».

Ministro?
«Nemmeno».

Perfetto. La chiamo già «sindaco»?
(Ride)… «Ehhh…»

«Ehhh» cosa?
(Serio). «Su questo non posso fare battute».

Tutti scrivono che Bassolino si ricandida. Lei è stato il sindaco più importante dell’ultimo quarto di secolo, la sinistra non ha un altro nome…
«E quindi?»

Faccio uno più uno.
«Ma io finora non ho detto una sola parola su questo tema».

Esatto. Quale migliore occasione di questa, per iniziare?
«Non si tratta di un fatto personale, ma di un ragionamento molto più complesso».

In che senso?
«Riguarda una città, un discorso che sta dentro il racconto di questo Paese».

Facciamolo, questo ragionamento.
«Ma lei è sicuro che ai lettori di Panorama interessi?»

Ci stanno già leggendo.
«E ha a disposizione almeno due ore? Sa, io sono di vecchia scuola».

Abbiamo a disposizione tutto il tempo che vuole.
«Allora ci diamo appuntamento alle sei di domani, e le chiederò di seguirmi».

Dove?
«A spasso per Napoli: le farò vedere qualcosa di interessante per capire il modo in cui questa crisi colpisce le città italiane nel tempo del Covid».

Antonio Bassolino non vuole parlare. È riservato, scaramantico, come è noto. Molti in città – a sinistra – invocano il suo nome, e questo lo rende ancor più guardingo. Ha 73 anni, ma ne dimostra meno di 20 anni fa: dimagrimento, salutismo, addio ai cinque pacchetti di sigarette al giorno, passeggiate in montagna, giri in città con i suoi mezzi pubblici. Dopo essere stato sindaco, ministro e governatore, guida una piccola fondazione (un pensatoio), che si chiama Sudd.

Napoli è un epicentro della nuova rabbia. Solo in una sola settimana ben quattro manifestazioni.
«Vero. Ma qui non sono state rotte le vetrine. Anche a Torino e Roma sono successe cose gravi: molotov, addirittura espropri proletari, un raid da Gucci».

Scenari da anni Settanta.
«È un momento molto delicato, per tutto il Paese. E in particolare per Napoli».

Come lo spiega?
«Da noi l’intreccio fra questione sanitaria e sociale sta diventando esplosivo».

Perché?
«Chi vede solo uno dei due fenomeni non può capire nulla».

Cosa accade in città?
«Cresce la disperazione sociale delle famiglie: e mi basta girare alcuni luoghi nevralgici per capire che aria tira».

Municipio e prefettura?
«Mannò: parto della mensa dei poveri di porta Capuana. Mi informo sull’aumento dei pasti somministrati».

E poi?
«Se viene con me davanti al monte dei pegni a via San Giacomo le faccio vedere che ci sono di nuovo le file».

Due file per raccontare una città?
«Esatto. Ma sono molto diverse tra loro».

Partiamo dalla mensa.
«Ai poveri classici si stanno aggiungendo, di ora in ora, i nuovi poveri causati dalla pandemia».

Chi sono?
«Persone e famiglie che stavano nelle economie dell’autosufficienza e cadono nella povertà. Così oggi trovi gli storici poveri napoletani, ovviamente gli immigrati, e adesso anche la piccola borghesia impoverita».

E lei questi ultimi come li riconosce?
«Facile, glielo faccio vedere. Sono quelli con gli occhi rivolti a terra per non farsi riconoscere».

Passiamo alla fila di Via San Giacomo.
«Qui non c’è gente alla fame, ma cittadini di piccola e media borghesia che hanno bisogno di sostenersi e mettono in gioco
i loro tesori».

Cosa la stupisce?
«La velocità con cui crescono queste file. Si stanno sommando vecchia crisi, emergenza sanitaria e nuova crisi».

Chi era il motore della protesta a Napoli?
«Le fasce toccate dall’ultima ondata nata dopo il Dpcm: tassisti, esercenti, baristi, ristoratori».

Perché proprio oggi, e non prima?
«Questa è la miscela sociale che trovi in tutte le aree urbane del Paese, non solo a Napoli. Sono incazzati perché esasperati. Sentono che manca prospettiva».

Prima non era così?
«A febbraio, o a marzo, se andavo nella Pignasecca o nei Quartieri Spagnoli trovavo un incredibile senso di disciplina».

Cioè?
«Non solo si rispettevano le prescrizioni, c’era una consapevolezza molto forte della necessità di proteggersi».

Incredibile.
«Non tanto. Ci sono momenti in cui Napoli dà il meglio di sé. Mi impressionava la gente dei bassi che se ne restava chiusa in casa. Nonostante gli spazi ristretti. Famiglie intere in un pugno di metri».

Era già accaduto?
«Mi viene in mente un solo precedente: 1973, il colera a Napoli. Ero già dirigente nazionale del Pci».

A cosa pensa?
«Il partito organizzava “le file”».

Le «file»?
«Per vaccinarsi. Avevano la forza di organizzare i turni, dei medici e dei volontari».

E poi?
«Arrivava la gente e tutto si svolgeva con il massimo ordine. Ma ora il clima sta cambiando. Nei quartieri più popolari noto meno mascherine. C’è un grande tema di rimotivazione delle persone».

Perché?
«Dopo tanti sforzi siamo di nuovo in una situazione difficile. Dobbiamo combattere due virus: il coronavirus
e l’impoverimento».

Lei ha analizzato i moti in piazza?
«Certo. Prima sera, una composta manifestazione, partita dagli esercenti più colpiti, e da tanti della galassia
dei precari».

E poi?
«Il giorno dopo stessa base sociale: e poi infiltrazioni di… “ambienti vari”».

Cosa intende?
«I più disparati: ultras, fascisti e piccola camorra. Ma attenzione: sono corpi che si inseriscono in una protesta esistente, non il contrario».

Il terzo giorno?
«Di nuovo piazza composta. Il quarto sono arrivati i tassisti: civilissimi, addirittura un corteo drive in, naturalmente distanziato».

Ogni giorno c’era qualcuno in piazza.
«Esatto. E in questo tessuto impoverito si insinuano i perturbatori. Guai a rappresentare con una delle maschere di questi infiltrati le sofferenze reali di quella piazza».

Lei gira così tanto?
«Sì, e sempre con i mezzi. Domenica con mia moglie abbiamo visto l’ultimo film, chissà per quanto. E…»

Cosa?
«C’erano folle non distanziate sull’autobus e metro, mentre in sala le regole erano applicate con rigore».

Domanda indiscreta. Ma alla sua età, da fumatore, non ha paura?
«Ho smesso di fumare alle ore 21.25 del 21 luglio 2003».

Addirittura ricorda il minuto?
(Ride). «Fumavo cinque pacchetti, è un passo che non si dimentica. E solo se giri capisci».

Cosa, per esempio?
«Il numero dei contagiati in diverse situazioni di sovraffollamento abitativo è più alto di quel che risulta dalle cifre ufficiali. Questo spiega anche paura e rabbia. C’è un conflitto istituzionale che non aiuta. Chiunque sia la maggioranza e l’opposizione si deve stare dentro un limite di dialettica “giusto”».

Come si capisce questo limite?
«Pensi a de Magistris e a De Luca che si fanno la guerra. Io l’ho imparato da un signore con la barba, da ragazzo: “Se si supera un limite giusto c’è la comune rovina”».

Karl Marx per spiegare la pandemia?
«Se sostituisci alle classi i soggetti in conflitto di oggi la citazione è perfetta».

Vero, ma non sia vago. Mi indichi una soluzione concreta.
«Governo, Comune e Prefettura devono fare una tavolo di crisi».

De Luca e De Magistris insieme?
«E chi sennò? Io nei momenti più duri ho lavorato fianco a fianco con un uomo di destra come Antonio Rastrelli. E con Silvio Berlusconi. Loro due non possono parlarsi? Suvvia».

Lei da quanto conosce De Luca?
(Ride). «Ehhh».

Cioè?
«Da sempre. Se devo darla una data, le rispondo: dal 1970, mezzo secolo fa».

Addirittura.
«Fui mandato da ragazzino a fare il segretario della federazione di Avellino. Lui allora lavorava all’Alleanza contadini, uno dei quadri più importanti».

E com’era?
(Ride). «È impressionante, identico a oggi: tono, voce, postura, irruenza. Solo i capelli, neri».

Nel 1976 lei diventa segretario regionale.
«E lui era nella segreteria della federazione di Salerno. Sa chi altro c’era? Rocco Di Blasi, Isaia Sales».

Che oggi lo attacca furibondamente dalle pagine de Il Domani dandogli del trasformista.
«…E poi c’era un ragazzo giovane. Che faceva il giornalista alla Voce della Campania».

Michele Santoro?
«Lui. Andavo a tenere le direzioni con piacere. Duravano nottate intere, belle, drammatiche, interventi infiniti». Ma finivano bruscamente».

Perché?
«Con le urla di protesta degli inquilini: “Silenzio, vogliamo dormire!”».

Poveri…
«Torno al punto: non è buonismo. Per uscire dalla doppia crisi serve dialogo, non guerre. Anche nel rapporto Nord-Sud abbiamo bisogno gli uni degli altri».

Per esempio?
«Il trasporto pubblico, tema enorme: le difficoltà sono grandi. Avremmo dovuto intervenire nei mesi scorsi. Stabilire un rapporto con i mezzi turistici: tutti fermi e tutti in cassa integrazione».

Non si è fatto.
«Pensi che io istituii un “Assessorato ai tempi”. Qualcuno mi sfotteva, ma ora si vede quanto sia importante cambiare il calendario delle città!»

Che altro?
«Il Covid sarà lo spartiacque fra un prima e un dopo. Aumentano le solitudini. I problemi psicologici».

Lei inaugurò l’inceneritore di Acerra, tra le proteste. Lo rifarebbe?
«Era un progetto di Rastrelli che io realizzai per continuità istituzionale. E meno male. Senza di quello oggi
la città soffocherebbe nei rifiuti».

Mi racconti un altro caso di collaborazione con la destra.
«Il più curioso? Il Festivalbar 1996».

E come?
«Ero tornato a casa a pranzo, invece del solito cappuccino a Palazzo San Giacomo. Stavo facendo la doccia.
Mi chiama il prefetto e mi dice: “Ci sono 200.000 persone a piazza del Plebiscito”».

Ed era un problema?
«Se era così all’ora di pranzo, la sera la piazza sarebbe esplosa!»

Cosa c’entra la destra?
«Esco subito. Salgo sul palco, urlo: “Spostatevi sui lati più lontani!”».

E poi?
«Montiamo un maxi schermo a piazza Municipio. Poi chiamo Letta, e poi Confalonieri per chiedergli la diretta su Mediaset: ci siamo salvati così».

Ci sarà stata anche una volta in cui è andata male.
«Nel 1996, a Miano. Padre e figlio, in un negozio di artigianato: il marciapiede sprofonda, entrambi inghiottiti. Siamo stati giorno e notte per recuperare le salme. Ci siamo alternati in turni, noi della giunta. Una staffetta di morte. Fare il sindaco è questo».

Bene: ora parliamo delle ultime primarie a cui ha partecipato. E non sia buonista.
(Occhi al cielo, pausa). «Non c’è molto da dire. Furono taroccate per impedirmi di vincere».

Però fu proclamata vincitrice Valeria Valente.
«Un gesto miope di quel Pd, con il senno del poi».

Miope? Fu un suicidio politico. Infatti furono spazzati via, come è noto, e vinse de Magistris. Lei dopo il broglio poteva candidarsi lo stesso e non l’ha fatto.
«La campagna elettorale rischiava di diventare una guerra fratricida. No, grazie: ho un mio stile, una mia storia a cui io tengo».

E oggi?
«Il Pd napoletano ha detto che non vuole primarie».

Cosa risponde a tutti quelli che le stanno dicendo: «Candidati»?
«Adesso è importante stare nel corpo della città».

Che tradotto in Italiano cosa significa?
(Sospiro). «Capire cos’è meglio fare per Napoli: sapendo che Napoli è Napoli».

Così pare uno scioglilingua.
(Risata roca). «Ho 70 anni, non sono un ragazzino. Penso solo a quello che mi sembra utile per la mia città».

Giusto. Ma ora dica cosa vuole fare: non in politichese.
«La verità? Voglio vedere chi, cosa e come si potrebbe mettere insieme per costruire una squadra all’altezza della sfida».

Di partiti?
«Partiti, cittadini, associazioni: anche persone con visioni politiche diverse, ma con un comune sentire».

Con il Pd?
«Io sono uno dei fondatori del Pd!»

È iscritto anche dopo quelle primarie?
«Dopo la batosta del 2018 ho sostenuto Nicola Zingaretti perché mi sembrava una figura giusta. Spinsi su di lui perché si candidasse».

Quindi lei se si fa una coalizione vuole che ci sia il Pd.
«Il Pd e le altre forze per dare a Napoli una prospettiva».

Sta pensando di impegnarsi in prima persona.
(Ride). «Scriva così… Bassolino dice: “Vedremo in che forme e in che modi.
Io voglio dare una mano alla città”».

Che fa, mi ruba il mestiere?
«Lei mi ha estorto una intervista. Ma io do una mano anche a lei».

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