Popolazione in povertà, élite che si arricchiscono nel caos delle istituzioni, tensioni territoriali e religiose. Il Libano, per decenni baricentro dell’intera regione, vive il periodo più difficile. E mentre la politica non riesce a esprimere un potere credibile, avanza il fondamentalismo.
Sulla Corniche, il lungomare di Beirut, le onde incontrano i monti del Libano dove d’inverno si vede la neve. Alla domenica, la popolazione si ritrova all’ombra delle palme: si portano i bambini a giocare, i fidanzati si tengono per mano, c’è chi fa jogging. Intorno, l’azzurro del cielo e del Mediterraneo, intensissimo soprattutto in primavera ed estate. Alla fine di questa passeggiata lunga quasi cinque chilometri si trova un’area abbandonata, il waterfront: doveva essere una vetrina in stile Dubai, ma è rimasta incompiuta. Qui svetta un edificio moderno che ogni anno ospita una fiera di libri, epperò i prati sono incolti, i marciapiedi maltenuti, i locali abbandonati, e poi filo spinato ovunque, le strade di cemento e desolate, graffiti sui muri. A poche centinaia di metri, al di là della strada a scorrimento veloce, c’è il quartiere commerciale, downtown. Disseminato da grattacieli di vetro, ristoranti e negozi di lusso, da Giorgio Armani a Tom Ford, e dove sfrecciano Ferrari e Porsche dei ricchi che adorano esibirsi nel fine settimana.
Beirut è così: contiene le contraddizioni di un intero Paese. In equilibrio sempre più precario con tratti affascinanti. Dopo la «rivoluzione» cominciata con le proteste dei giovani, la Thawra di ottobre 2019, seguita dall’apocalittica esplosione del porto il 4 agosto 2020, il Libano è sceso in un gorgo che lo sta portando sempre più al fondo. L’economia è al collasso, la ripresa ormai appare un miraggio. Le diseguaglianze sono immense. I tre quarti degli abitanti non riescono a mettere insieme due pasti al giorno, ma una piccola minoranza vive come fosse a Miami. La lira libanese in meno di quattro anni ha perso oltre il 98 per cento del valore. L’inflazione è stata in media del 171,2 per cento nel 2022, uno dei tassi più alti al monso, accompagnata dall’aumento dei prezzi di alimenti e bevande. «Finché l’economia è in contrazione i poveri continueranno a moltiplicarsi» dice Jean-Christophe Carret, direttore della Banca mondiale per il Medio Oriente.
Anche Hicham Tohme, professore di origine libanese che insegna Scienze politiche alla DeSales University in Pennsylvania, non nutre grandi speranze e dice a Panorama: «Quasi due terzi della popolazione vive al di sotto della soglia di sussistenza e uno degli studi della Banca mondiale suggerisce che, a un certo punto, l’80 per cento vivrà in condizioni di estrema indigenza. Una minoranza si può permettere uno stile di vita benestante perché è pagata in dollari, mentre la valuta locale, in cui viene retribuita la maggior parte dei cittadini, è quasi senza valore, e l’economia si basa prevalentemente su importazioni. Alcuni fortunati beneficiano anche di rimesse dai familiari che lavorano all’estero». Poi denuncia: «Le persone attualmente al governo sono le stesse responsabili del fallimento del Paese».
Tutti i settori del sistema economico sono in difficoltà. Come sottolinea Karl Kanaan, 37 anni, un immobiliarista di Beirut: «Un anno fa i prezzi delle case erano scesi del 40 e 50 per cento. Ora i proprietari vendono il loro immobile meno facilmente. E per i mercati di nicchia come gli edifici di lusso, non si scende di molto: meno 10 o 15 per cento perché sono privati che non hanno bisogno di vendere e possono aspettare tempi migliori. I prezzi non crollano come si potrebbe supporre. Però quest’estate hanno aperto nuovi ristoranti per accogliere gli espatriati. Sono loro che alimentano artificialmente l’economia».
Gli scambi si sono «dollarizzati», si usa la moneta americana ovunque, in supermercati, negozi, ristoranti. Un dollaro equivale attualmente a 89 mila lire. Per rendere l’idea, lo stipendio minimo in Libano è di 75 dollari, peccato che un chilo di carne ne costi 10. Ci sono frequenti blackout elettricità e scarseggia l’acqua potabile. «È un Paese schizofrenico» racconta Caroline Torbey, 34 anni, scrittrice, «perché i locali in estate sono pieni, come le spiagge e i night club, ma la gente non ha il denaro per acquistare le medicine o, addirittura, fare la chemioterapia. Non si riescono a mandare i figli a scuola, la classe media non esiste. La società è divista tra ricchissimi e poverissimi. È stato anche l’anniversario dell’esplosione del 4 agosto 2020 ma non abbiamo ancora i responsabili di quella tragedia».
Tuttavia, i problemi sono non solo economici ma anche politici, con un premier Najib Mikati, secondo la rivista Forbes l’uomo più ricco del Libano, con un patrimonio netto di 2,7 miliardi di dollari, più volte accusato di corruzione, e l’assenza di un presidente della Repubblica. Da ottobre 2022 il Parlamento non riesce a esprimere un capo dello Stato, che secondo i delicati equilibri interni dovrebbe essere un cristiano: non si trova un accordo. Jeanine Jalkh, 62 anni, giornalista del quotidiano locale L’Orient-Le Jour commenta: «C’è uno stallo completo. Principalmente perché l’opposizione che include molti partiti cristiani ma anche membri indipendenti del parlamento si è rifiutata di votare Sulayman Farangiyye, il candidato di Hezbollah per la presidenza».
Intanto iI governatore della banca centrale Riad Salameh, 73 anni, ha lasciato l’incarico dopo un trentennio: a suo nome ci sono due mandati di arresto internazionali, e nessun successore designato. Un dinosauro del potere: è stato nominato governatore della Banca centrale del Libano nel 1993, è sopravvissuto a 12 premier ed è stato anche visto come un valido candidato alla presidenza. Ma la reputazione di Salameh è ora in pezzi. A suo carico accuse di corruzione, riciclaggio di denaro e cattiva gestione finanziaria. La Banca mondiale ha definito la crisi in atto una «depressione orchestrata dall’élite del Paese che da tempo si è impadronita dello Stato e ha vissuto delle sue rendite». Salameh avrebbe sottratto centinaia di milioni di dollari della banca per arricchirsi. Lui ha negato le accuse e ha ribadito di essere un capro espiatorio. «A mio parere, l’essenza della crisi economica è politica» aggiunge il professor Hicham Tohme.
Dalla fine della guerra civile nel 1990, il Libano non ha visto riconosciuta alcuna responsabilità per i signori della guerra che ha provocato 100 mila vittime. Spiega ancora il politologo: «Hanno tenuto le redini del potere, usandole per accrescere il proprio patrimonio, quello dei loro clan e anche della loro clientela. Sono infatti diventati proprietari e direttori delle più importanti banche del Paese, e hanno fatto da creditori anche per il governo con tassi di interesse esorbitanti. E queste persone erano allo stesso tempo al potere».
Joumana Rizk, 55 anni, è un’imprenditrice che gestisce la sua attività di raccolta e commercio di uva nella valle della Bekaa; senza giri di parole spiega così le degenerazioni del sistema: «Tira una brutta aria. Solo i fresh dollar (i contanti ndr) arrivati dopo il 2019 possono essere utilizzati. Tutto ciò agevola corruzione e riciclaggio perché i pagamenti avvengono “cash”. Questo torna utile ai trafficanti di droga e di sostanze come il captagon. Abbiamo diritto a prelevare 400 dollari al mese. I prezzi stanno aumentando, gli stipendi no». Non solo il presidente della Repubblica, ma i posti chiave dei cristiani nelle società libanese ora sono vacanti. E questa minoranza religiosa vive un forte disagio. «Il 10 luglio scorso, a Kahali, un camion di Hezbollah ha avuto un incidente» racconta l’imprenditrice. «Per alcuni trasportava munizioni e armi. Secondo fonti dei servizi segreti, soldi dall’Iraq. Ci sono stati due morti: uno di Hezbollah e l’altro cristiano. Non si sa chi abbia sparato per primo. L’esercito ha tardato ad arrivare e il capo Joseph Aoun, che aveva chance di diventare capo dello Stato, ha perso una buona occasione per rimettersi in gioco». E conclude: «Ormai i cristiani non contano più nulla; invece, Hezbollah ha occupato ogni posto di rilievo nell’organigramma della Repubblica libanese».
La forza della milizia sciita si fa sentire anche al confine con Israele. Qui, di recente, ci sono stati numerosi scontri tra lo Stato ebraico ed Hezbollah, pare appoggiato dall’Iran. L’ultima guerra è stata combattuta nel 2006 per 34 giorni. Ghajar, uno dei villaggi di confine, è al centro delle più recenti frizioni. Nel 2022 i governi israeliano e libanese hanno firmato un accordo che delimita i loro confini marittimi, e ha aperto la strada a entrambi per sfruttare i vasti giacimenti di gas nel Mediterraneo. La fiammata su una delle frontiere più tormentate dell’area ha scatenato il nervosismo dei due Stati. «Il pericolo è che ci possa essere un errore di calcolo, o anche soltanto una provocazione» ha sottolineato Kandice Ardiel, portavoce di Unifil in Libano. E ha concluso: «Si vive una lunga attesa e dobbiamo fare di tutto perché non si arrivi a questo».