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Un anno dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi

Un anno dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi

Se n’è andato il 12 giugno 2023, ma certo non è scomparso dalla cronaca quotidiana degli italiani. A partire dalla politica, dove le sue idee sono diventate lasciti di urgente attualità. Così Silvio Berlusconi, oggi, è ancora una spanna sopra chi lo demonizzava da vivo.


Un Highlander di nome Silvio. Ha il cognome che vale un voto, il volto sui manifesti di Forza Italia, il profilo su un francobollo celebrativo in arrivo, una serie tv in classifica su Netflix, un’altra su Sky che celebra una storica vittoria del suo Milan, il centrodestra fondato da lui al governo, un programma politico firmato da lui in piena attuazione (dalla separazione delle carriere dei magistrati al premierato), il titolo di Cavaliere restituito dal capo dello Stato alla figlia Marina, la famiglia alla guida di un impero imprenditoriale, la rivoluzione liberale di nuovo «agibile», il girocollo blu sempre di moda, l’armocromista da quando Elly Schlein andava alle elementari.

Perfino i giudici americani copiano i suoi nemici per tagliare le unghie a Donald Trump con il bunga bunga. Chiudi gli occhi e lo senti commentare: «Non sapete neanche scherzare». Dicono che Berlusconi sia morto un anno fa (12 giugno) ma non ci crede nessuno. Aveva ragione il suo amico don Luigi Verzé, che cercava di prolungare la vita media oltre i 100 anni; con lui dev’esserci riuscito, se non nel fisico almeno nella lunga ombra immanente che il Cavaliere proietta ancora sul nostro Paese, dal medesimo definito «più che una nazione, una Nazionale» qualche decennio prima di Giorgia Meloni. Mentre i suoi più acerrimi rivali sono in pensione da un secolo (Achille Occhetto e Romano Prodi), giocano con i trattori (Antonio Di Pietro), frequentano i tribunali (Gianfranco Fini), vanno al cinema (Walter Veltroni) o cercano tardiva visibilità straparlando di lui (Carlo De Benedetti), l’inossidabile Berlusconi continua a innervare nel bene e nel male l’Italia in transizione, dimostrando con il trascorrere del tempo di essere – da defunto (o definto?) – una spanna sopra chi lo demonizzava da vivo.

«Meno male che Silvio c’era», si potrebbe attualizzare la canzone celebrativa del 2008. Ed è curioso notare che a dichiararlo non siano soltanto i suoi alleati ma innanzitutto chi lo ha contrastato in politica e nei media schierati a coorte. Lo rimpiange Matteo Renzi, che preferiva le battute del Cavaliere al gelo meloniano e nell’ultimo libro Palla al centro ricorda il loro primo incontro: «Indossavo un abito di velluto marrone. Lui non fa in tempo a stringermi la mano e già mi dice: “Ma come, tutti parlano bene di lei e si veste così da comunista? Ma lei non veniva dal marketing, scusi?”».

Lo rimpiange simpaticamente Antonio Padellaro, fondatore con Marco Tavaglio de il Fatto Quotidiano, che in un’intervista a La Verità ha ammesso: «Più che grande illusione, grande tiratura perduta. Glielo dissi esplicitamente: lei ha fatto la fortuna dei suoi amici, ma molto anche quella dei suoi nemici. Lui era il più potente, poi con Renzi e ora con la Meloni non è più la stessa cosa. In quel periodo il nemico faceva lui il giornale al posto nostro». «Era meglio Berlusconi», cantava Povia per infastidire il circolino dei rivoluzionari da salotto. Forse perché aveva lo sguardo lungo e ha saputo prevedere temi chiave nella società dell’edonismo e del benessere. L’animalismo filiale con Dudù, il mito del jogging (in bermuda alle Bermuda), il forbicione da giardiniere fra i roseti di Villa Certosa. Tendenze oggi consolidate, anzi cavalli di battaglia della sinistra green che lo considerava «unfit to lead Italy». Soprattutto, la modernità del Cavaliere sta nel carisma self-made dell’uomo che scoprì il moltiplicatore della vita social prima dei social (hai detto niente). E rivoluzionando la comunicazione mandò fuori corso il codice Cuccia, fondato sul mutismo, e il canone Andreotti, che si basava su dossier minacciosi. Oggi tutti ballano sulla musica scritta da Mister B: chi tira i fili della comunicazione ha un solo modo per dimostrare il proprio potere, comunicare. Spiegava Arrigo Sacchi che fece la rivoluzione al Milan: «Il vero rivoluzionario era lui. Introdusse la categoria del coraggio non solo nel calcio. E costrinse tutti a rinnovarsi».

C’è sempre molto Berlusconi nell’Italia di «centro-destra», termine che lui non scriveva mai unito, sempre con il trattino. Come a dire, insieme ma diversi. La sua posizione a tavola era chiarissima: «Ma quale destra, io sono di centro, di centro!». Allora anche i vescovi progressisti annuivano baciando il crocifisso al collo. Oggi, da quel centro di gravità permanente, Forza Italia non si muove a garanzia dei moderati. Lo abbiamo detto: la riforma della giustizia del ministro Carlo Nordio ha nella separazione delle carriere il caposaldo del garantismo berlusconiano. E la volontà di arrivare a far votare il presidente del Consiglio ai cittadini, come da proposta di legge costituzionale di Giorgia Meloni, va nella direzione indicata dal Cavaliere, che non si dava ragione per «le trappole ministeriali e le congiure di palazzo che indeboliscono l’azione di governo». A dire il vero lui era per il presidenzialismo alla francese o all’americana (era convinto che il popolo lo avrebbe mandato al Quirinale), ma se non è zuppa è pan bagnato.

Questo è sempre il suo Paese. Abbastanza liberale da non confondere il conservatorismo illuminato con il ridotto calendiano per socialisti mascherati. È l’Italia della piccola e media impresa, delle partite Iva, delle famiglie, del pranzo della domenica, dell’ascensore sociale, del risparmio e del conto in banca da non demonizzare come fa da 30 anni la sinistra cattocomunista, con il risultato che un infermiere italiano guadagna la metà di un infermiere irlandese. Berlusconi è ancora qui perché di Berlusconi hanno avuto bisogno tutti: la destra per diventare una coalizione di governo dietro valori condivisibili, la sinistra per poter lottare contro un nemico così perfetto, il «Ragazzo Coccodé» (titolo de la Repubblica), simbolo del reaganismo all’italiana. E ne ha avuto bisogno la gente, come scrisse Edmondo Berselli nel saggio Post italiani, per nutrire delle speranze «dopo aver subìto per troppo tempo con insofferenza crescente il primato della politica e il predominio dei partiti».

Poi c’è l’Europa, con il ruolo comunque centrale del Ppe, che Silvio frequentava quasi come Arcore. La geopolitica del Cavaliere, filoamericana anche se dettata dal lettone di Putin esattamente come quella di Angela Merkel (con quel precipitato di Ddr che lui non sopportava), resta un esempio di moderatismo, di equilibrio tra forze centrifughe, di capacità superiore di instaurare rapporti personali con i grandi della Terra. Un’eredità che costituisce un salvagente oggi per Forza Italia, partito capace di evolversi e di porsi come garante di rassicurante centrismo in un continente afflitto da derive socialiste. Lo hanno scoperto anche i francesi. Dieci giorni fa il quotidiano Les Echos ha pubblicato un’analisi nella quale si sottolineava che «la morte del partito di Silvio Berlusconi è stata annunciata troppo in fretta, perché non avrebbe potuto sopravvivere al suo fondatore. Invece Forza Italia rimane un attore importante nella coalizione di governo a Roma e sarà indispensabile per far sentire la voce dell’Italia a Bruxelles. Come giocare una finale di Champions League nella squadra di Maradona, anche se lui non c’è più». Insomma, il diavolo è un eroe positivo e non si parla che di lui. Elly Schlein invitata a Palazzo Grazioli, dove oggi c’è la sede della Stampa estera, ha voluto visitare la stanza segreta, e ovviamente vuota, del Cavaliere. Romano Prodi nel 2024 non trova di meglio che polemizzare con Bruno Vespa perché «nel confronto tv del 2006 lasciò a lui l’ultima risposta».

Attorno all’Highlander tutti si accapigliano ancora; basta un francobollo per scatenare la rissa, e questo mantiene giovani. La richiesta di un’emissione speciale ha avuto il via libera dal Consiglio dei ministri ma ha immediatamente suscitato la reazione del Club dei Rosiconi. Wikimafia sta raccogliendo le firme da mandare al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché blocchi l’affrancatura celebrativa per «pregiudiziale etica». È l’eterno ritorno del sempre uguale, l’ontologia circolare di Friedrich Nietzsche, a conferma che attorno al doppiopetto Caraceni più famoso dell’Occidente il tempo si è fermato. Profetizzava don Verzé: «Berlusconi lascerà una scia, non una struttura». Questa volta il sacerdote col turbo si sbagliava.

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