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Campania, il tramonto di Don Vincenzo

Campania, il tramonto di Don Vincenzo

Gli amministratori che cementano il potere di De Luca in Campania sono sotto inchiesta e a processo. Anche in questo emulano fedelmente il loro governatore… Che dopo due mandati, e in cerca del terzo, è in affanno.


«I soliti portaseccia…» soffia Don Vincenzo nel microfono dopo essersi rimesso in piedi. Antefatto: durante l’ultimo brindisi di fine anno, un inserviente sposta la poltrona del governatore. E De Luca, visto il capitombolo, se la cava con l’ennesima battuta sui menagrami. Fortuito incidente diventato sgradita profezia. Sognava di emulare il dittatore nordcoreano, Kim II-sung, a capo del regime comunista per 46 anni filati. Ma l’aspirante epigono campano dovrà accontentarsi di un abbondante trentennio. Sul Deluchistan rosseggia il tramonto. Passate le Europee, sarà notte. E nell’autunno del prossimo anno, caleranno le tenebre. Quando l’inconsolabile Vincenzo De Luca, raggiunte le 76 primavere, sarà costretto a lasciare il suo trono di Palazzo Santa Lucia. Nel 1993, eletto sindaco della sua città, con usuale modestia ammetteva: «Io sono Salerno». Dopo 31 anni al potere, non si rassegna: «Mi ricandido in eterno». Il suo tarantolato e scomposto incedere, però, esemplifica l’affanno. La singolar tenzone ingaggiata con Elly Schlein, segretaria piddina. La disputa sul terzo mandato. La studiata insolenza contro il governo. La calata a Roma alla testa di un drappello di devoti sindaci. È il crepuscolo del presidente che volle farsi viceré. Potere scientifico in terra anarchica. Quattro capoluoghi su cinque in mano al centrosinistra. Un monocolore da cui si esime solo l’enclave beneventana, controllata da un altro inossidabile: Clemente Mastella.

Tempi duri, per Don Vincenzo. E anche per i suoi fedelissimi. Tutti assediati da inchieste e mandati in scadenza. Il governatore è stato appena rinviato a giudizio dalla Corte dei conti per il più cervellotico dei suoi spunti autoritari: il green pass con la pummarola ’ncoppa imposto ai suoi sudditi, impipandosene di leggi nazionali e carta verde ufficiale. Un supposto danno erariale di 3,7 milioni di euro, di cui quasi un milioncino a suo carico. Scellerato spreco, secondo i magistrati contabili. Con i giornali locali lesti a infierire, dopo lustri passati a venerare il presidente Masaniello. E già due mesi fa, ancora la Corte dei conti, aveva confermato in appello la condanna per un altro danno erariale. Quattro vigili salernitani diventati responsabili della sua segreteria, con un’illecita «indennità maggiorata». Prodezza amministrativa che De Luca dovrà risarcire con 101 mila euro.

È uscito invece lindo, nel 2021, dalla ben più perigliosa inchiesta giudiziaria sul monopolio delle coop rosse a Salerno, dove è stato quattro volte sindaco. Anzi, «sceriffo». Poi sostituito dal suo vice: Vincenzo Napoli, tuttora in carica. I maligni, vista la salda presa che mantiene il predecessore, l’hanno ribattezzato il «facente finzione». Non a caso, potrebbe ripiegare sulla guida della città nel 2026. Comunque sia: pure il fido Napoli ha accompagnato De Luca nel raid politico della capitale, per protestare contro l’autonomia al motto. «Imbecilli, farabutti e delinquenti» deflagra il governatore. E quando l’insolentita premier, Giorgia Meloni, ricorda gli imperdibili finanziati in Campania, dalla festa del caciocavallo podolico alla sagra dello scazzatiello, lui esonda ancora: «Stracciarola!». Aggiungendo, con malcelata vanteria, di aver raggiunto il suo scopo: «Mi sta facendo diventare antagonista principe». Magari. Il Deluchistan sembra cinto d’assedio. Politico e giudiziario. Rimanendo nel suo indimenticato feudo: il devotissimo Franco Alfieri, presidente della Provincia di Salerno e sindaco di Capaccio-Paestum, lo scorso 31 gennaio riceve la visita dei finanzieri. Si sarebbe adoperato, ipotizza la Procura, per far subappaltare dei lavori pubblici alla ditta di famiglia. Comunque vada, una leggenda.

Agli smemorati ricordiamo l’aneddoto che gli valse l’imperituro soprannome: «re delle fritture». Novembre 2016, piena campagna referendaria. Don Vincenzo riunisce i suoi, trecento agguerriti amministratori locali, all’hotel Ramada di Napoli. Qualche buontempone registra e diffonde il suo discorso motivazionale: «Prendiamo Franco Alfieri, notoriamente clientelare. Come sa fare lui la clientela, lo sappiamo. Una clientela organizzata, scientifica, razionale. Come Cristo comanda. Che cosa bella…». Risate. Applausi. Da sganasciarsi. Don Vincenzo, dunque, intima: «Franco, vedi tu come Madonna devi fare: offri una frittura di pesce, portali sulle barche, sugli yacht. Fai come cazzo vuoi tu, ma non venire qui con un voto in meno di quelli che hai promesso». Da cui, il «re delle fritture». E vista la conoscenza in materia, il presidente lo nomina pure suo consigliere per politiche agricole, caccia e chiaramente pesca.

Momenti gloriosi. Mentre adesso, purtroppo, fastidiose indagini incombono sui fuoriclasse deluchiani. Il sindaco di Caserta, Carlo Marino, comparirà in udienza il prossimo 19 marzo: dovrà difendersi dall’accusa di turbativa d’asta nel bando per la gestione dei rifiuti in città. Anche lui, al comando dell’Anci in Campania, si scapicolla un mese fa davanti a Palazzo Chigi con i rivoltosi. Intanto l’ex sindaco di Pozzuoli, Vincenzo Figliolia, viene arrestato assieme a un altro sincero deluchiano: Nicola Oddati, ex dirigente del Pd, nominato dal governatore responsabile dei rapporti istituzionali con la conferenza delle Regioni. Sono entrambi accusati di corruzione per l’appalto di un complesso turistico. Intanto, è appena cominciato il processo per i presunti brogli elettorali che avrebbero favorito Giovanni Zannini, non indagato, eletto nella lista del governatore e poi a capo della commissione regionale Ambiente. Mentre il collega Gennaro Oliviero, presidente del Consiglio campano, alle ultime primarie del Pd viene tacciato dalla brigata arcobaleno: è il signore delle tessere. Avrebbe brigato invano per favorire Stefano Bonaccini, presidente emiliano-romagnolo e antagonista di Schlein. Che, entrata trionfalmente al Nazareno, decide di commissariare la federazione piddina di Caserta e la segreteria regionale. Segue la rimozione del figliolo di De Luca, l’onorevole Piero, dalla vicepresidenza del partito alla Camera. Alle calcagna del governatore viene pure sguinzagliato Sandro Ruotolo: «Elly aveva otto anni quando De Luca ha avuto i primi incarichi. Abbiamo bisogno di cambiare aria» sbrana l’ex mastino del giornalismo.

Basta «cacicci», infierisce Schlein. Don Vincenzo s’incattivisce. Ulteriormente. Tenta di azzoppare la claudicante segretaria dem. A suon di insulti, esecrati perfino dal Quirinale, si distingue quindi come il più verace antimeloniano in circolazione. Ma la battaglia per il terzo mandato non trova sponde. Si aggiunge l’imprevisto. Elly vince in Sardegna, con Alessandra Todde. Lo smunto campo giallorosso sembra rianimarsi. Per la segretaria dem non tutto è perduto. Lui rialza i toni, frantumando ogni decibel. E si ricandiderà comunque, ovvio. Un cavillo glielo permetterebbe, assicura. Maldestro bluff, probabilmente. Verrebbe sommerso da ondate di ricorsi. E poi, senza il Pd, dove potrebbe arrivare? Alla stessa percentuale raccolta in Sardegna da un’altra inconsolabile vecchia gloria piddina, Renato Soru. Meno del dieci per cento. Insomma: come il Jep Gambardella della Grande bellezza, si accontenterebbe di veder fallire la festa piddina. Contando sui suoi giannizzeri. Che però, dopo le Europee, potrebbero accodarsi al nuovo sovrano designato.

A Napoli impera già l’erede designato: il giallorosso Gaetano Manfredi, ex ministro dell’Università. Il sindaco, assicurano, sarà governatore. Lui, intanto, si tiene lontano dalle intemerate romane, predicando antitetica ed esecrata moderazione. Ultimo, rivelatorio, siparietto. Per interposta persona, ovvero il vicepresidente della regione, De Luca si rivolge a Manfredi: «Intollerabili sermoni opportunistici» svelena Fulvio Bonavitacola. Il sindaco rintuzza: «Noi pensiamo al bene della città, non al nostro». Soffuso sotteso alle scomposte mire avversarie. In aggiunta, nonostante gli sforzi del capostipite, la progenie arranca: l’onorevole Piero è stato solo ripescato alle ultime Politiche e Roberto, già assessore a Salerno, s’è eclissato. A differenza della Corea del Nord, in Campania non si scorgono degni eredi.

Insomma, la congiuntura è dolorosa. A Don Vincenzo, per garantirsi un futuro, non resterebbe che tornare al passato. Sindaco di Salerno. Per la quinta volta. Lo sceriffo che tenta si riappuntarsi la stella sul petto. Qualche mese fa, durante una delle periodiche incursioni in città, annuncia battaglia contro la zoticaggine locale. «La città è invasa di tavolini, sedie e gazebo. Sembriamo il Bangladesh. È una vergogna». E basta pure con la musica in centro. Don Vincenzo anticipa persino il possibile slogan: «Cafoneria zero». E soliti modi pirotecnici: «Se ci vuole la linea dura, allora ci vuole il lanciafiamme». Variante più cruenta della fiamma ossidrica. Quella che servirà per sbullonare il governatore dal suo trono.

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