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Il paternalismo dei social sfocia nella giustizia privata. La sinistra ci rifletta

Il paternalismo dei social sfocia nella giustizia privata. La sinistra ci rifletta

Il lato meno esplorato e più oscuro delle recenti elezioni americane è senza dubbio quello del ruolo dei social network nella politica contemporanea. I social da piazze aperte diventano editori con loro opinioni. Fa specie che partiti ed intellettuali di sinistra, in passato sempre pronti a denunciare censure e attentati al pluralismo, abbiano scelto di soprassedere al problema. Oggi conviene loro perché la visione del woke capitalism coincide con quella della sinistra liberal. Ma cosa succederà in futuro nessuno lo sa.


Il lato meno esplorato e più oscuro delle recenti elezioni americane è senza dubbio quello del ruolo dei social network nella politica contemporanea. Non solo perché su di essi passa la polarizzazione che sta distruggendo il dibattito pubblico occidentale, ma perché è sempre più difficile dire cosa siano diventate queste piattaforme utilizzate da miliardi di persone. Ciò che è certo è la loro posizione sul mercato, quella di oligopoli naturali che si ramificano sempre di più nel settore digitale e tecnologico. Sono infrastrutture nelle quali è difficilissimo aprire un varco alla concorrenza. Questo è il primo dei problemi che ci si para davanti quando guardiamo ai social network e cioè se i governi debbano intervenire per evitare eccessive concentrazioni di capitale nelle mani di pochi oligarchi. Contro i trust e i monopoli dei primi del Novecento il presidente Theodore Roosevelt prese l’iniziativa, pur ottenendo nel concreto risultati altalenanti.

Oggi il Senato americano ha più volte vagliato le azioni dei fondatori delle big tech, ma non vi è ancora stato un provvedimento deciso. Il problema politico della concentrazione di capitale e di limitata concorrenza esiste, seppur per ora irrisolto. E non sarà semplice arrivare ad una soluzione, contando anche quanto questo capitalismo della sorveglianza sta cooperando con i governi nel campo della sicurezza e della difesa. C’è poi una seconda questione, forse più grave e complessa, che riguarda i contenuti delle piattaforme. Il presidente uscente, Donald Trump, sia durante che dopo la campagna elettorale, si è visto oscurare o contrassegnare i propri tweet da un alert che avvisava dell’esistenza di una potenziale fake news fornita dal Capo di Stato americano. In passato, sono state numerose le pagine di associazioni o gruppi chiuse arbitrariamente da Facebook per estremismo politico. Di fatto, i social network hanno allestito un proprio tribunale che giudica la bontà o meno delle notizie e il grado di estremismo delle posizioni politiche. Un sistema di giustizia privato che decide chi può stare dentro e chi no. Così si arriva al centro della questione: cosa sono davvero le piattaforme social? Delle piazze aperte al pubblico, detenute dai privati, o degli editori che possono decidere quali contenuti pubblicare? Nel secondo caso i social network dovrebbero sottostare alle implicazioni fiscali e giuridiche dell’editoria. Per fare un esempio, essi diventerebbero penalmente responsabili per la pubblicazione di contenuti che violano la legge. Questo è ciò che i nuovi oligarchi non vogliono. Essere assimilati agli editori non è conveniente per loro. Allora possono continuare ad essere un luogo aperto al pubblico, ma in quel caso la politica dovrebbe intervenire. Valgono o meno i diritti costituzionali per gli utenti delle piattaforme social? Esse possono, secondo loro canoni etici e politici, marchiare alcuni contenuti o farne sparire altri? Sono domande a cui governi e capitalisti digitali dovranno prima o poi rispondere. Esse possono e devono restare private, nessuno vuole estirpare un frutto del capitalismo, ma esistono molti settori del mercato che sono regolati e non si vede perché le big tech non dovrebbero esserlo, anche considerata la loro posizione dominante sul mercato. Paradossale, inoltre, che il top management dei social network voglia combattere le fake news quando questi ultimi hanno avuto un ruolo fondamentale nel pluralizzare all’estremo le fonti di informazione. Sui social, in altre parole, ogni individuo si costruisce la sua verità perché questo genera profitto per chi detiene le piattaforme e per gli editori.

Dopo anni di incentivi a questo meccanismo, oggi si cerca di recuperare nel modo peggiore e cioè irrigidendo il dibattito e limitando i contenuti. Questo problema, inoltre, si ricollega ad una questione ben più ampia che riguarda la mania di certificare “la verità” da parte di alcune frange del capitalismo. Si sta diffondendo ad esempio una sorta di sistema di rating dell’affidabilità delle notizie fornite dai media, con società che assegnano punteggi all’attendibilità media di una testata. Ebbene, mai si era vista tanta inclinazione al dirigismo da parte del capitalismo. Può forse esistere un algoritmo per scegliere quale sia la verità vera? Cittadini e consumatori devono essere imboccati dalle agenzie della verità attraverso un rito paternalistico? Le fonti ritenute meno affidabili, ad esempio, potrebbero essere penalizzate nella visibilità sui motori di ricerca. Tuttavia, è evidente che qualsiasi notizia sia suscettibile di più interpretazioni, che la verità non sia mai soltanto una ed indiscutibile e che il dibattito pubblico funziona proprio perché c’è uno scambio di opinioni e non una sola prospettiva. Di fatto, siamo di fronte al tentativo di esercitare un controllo dell’informazione e della comunicazione che ricorda la tecnocrazia sovietica. Un liberale confida sempre che il mercato corregga certi eccessi e che nascano imprese concorrenti che non applichino etichette ai contenuti o che non diano la pagella ai giornali. Nel frattempo, però, esistono oligopoli con un rapporto problematico con la libertà d’espressione e la politica su questi punti dovrebbe intervenire per tutelare la concorrenza e, soprattutto, i diritti costituzionali. Fa specie che partiti ed intellettuali di sinistra, in passato sempre pronti a denunciare censure e attentati al pluralismo, abbiano scelto di soprassedere al problema. Oggi conviene loro perché la visione del woke capitalism coincide con quella della sinistra liberal. Ma cosa succederà in futuro nessuno lo sa. La politica cambia velocemente e gli orientamenti del capitalismo pure. Niente ci impedisce di pensare che tra qualche anno le big tech possano diventare più conservatrici rispetto alla politica o che magari la sinistra potrebbe estremizzarsi diventando più marcatamente anti-capitalista. A quel punto la mannaia della “informazione condizionata” azionata dagli oligarchi dei social network potrebbe abbattersi anche sulla sinistra. In attesa della politica, non resta che confidare come sempre nell’intelligenza degli individui che nel mercato si fa collettiva, attribuendo il giusto peso ad avvertenze e rating e creando gli incentivi perché emergano nuovi imprenditori digitali. Si può etichettare una notizia, ma coartare la libertà di scelta di miliardi di individui appare molto più difficile. Almeno per ora.


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