La strategia di Pechino per riprendersi territori che ritiene suoi è: «un pezzetto alla volta». Nel mare più conteso del mondo, come lungo remoti confini montani.
Un gruppo di contadini nello Stato dello Shan, Birmania, pochi giorni fa ha divelto una recinzione che spostava il confine cinese nella loro terra. Le autorità facenti capo a Pechino avevano preannunciato la necessità di una qualche barriera lungo la linea di demarcazione tra i due Paesi «per prevenire il passaggio del coronavirus», e quando l’ha costruita interi ettari che prima erano di qua, sono passati di là. E lo stesso sarebbe accaduto in altre zone del paese. In Nepal, invece, la Cina avrebbe addirittura annesso il villaggio di Rui alla Regione autonoma del Tibet (o Tar, sotto il controllo di Pechino).
Un documento del ministero dell’Agricoltura di Katmandu parla di 36 ettari di terra. «Ma se continuano così» scrive «gli ettari potrebbero diventeranno centinaia». Qualcuno smentisce, ma spuntano pian piano i dettagli: l’occupazione di Rui sarebbe avvenuta nel giro di due anni e da lì si sarebbe ampliata ad altri 11 edifici lungo il confine con la complicità dell’ex premier Sharma Oli (retto da un’alleanza tra un partito marxista-leninista e uno maoista). La sua vicinanza alla Cina era conclamata. Il recente nuovo governo in carica sta studiando il da farsi.
Gli «encroachment», parola a metà tra sconfinamento e invasione, come li chiamano i siti in lingua inglese della regione, sono solo una forma della nuova aggressività del Dragone, che da quando è tornato un Impero è determinato a riprendersi ciò che considera suo. E forzare tante tra le dispute territoriali in atto da decenni con quasi tutti i Paesi confinanti via terra e via mare. Filippine, Indonesia, Vietnam, Giappone, India, Corea del Sud e del Nord, Singapore, Brunei, Laos, Mongolia, Nepal, Birmania…
Da anni costruisce nelle sacre valli del Bhutan che ora ospitano una rete di strade, case e avamposti militari, come racconta Foreign Policy, rivista statunitense di relazioni internazionali, scatenando l’irritata smentita di Pechino. Ma il reportage è documentato e mostra anche un servizio tv del 2020 in cui si vede il segretario del Partito comunista cinese in Tibet camminare in un villaggio, Gyalaphug, raccomandando a chi vi si era insediato di «mettere radici come i fiori di Kalsang al bordo delle nevi».
Tra Cina e Bhutan pochi giorni fa è stato firmato un Memorandum of understanding (accordo di cui si sa ancora poco), ma questo non cambia il principio delle cose, analizzato anche dal think tank americano Jamestown Foundation: «Le pretese territoriali cinesi si stanno ingrandendo e, per affermarle, Pechino sta adottando una strategia sempre più aggressiva». E prosegue: «Si può fare un parallelismo tra l’espansionismo cinese in Bhutan con quello nel Mar cinese meridionale, dove hanno costruito e militarizzato isole per rafforzare le pretese su quelle acque contese». Il senso, spiegano, è alterare lo status quo locale così da far trovare l’altra parte davanti al fatto compiuto.
Gli analisti del think tank indiano Takshashila Institution vedono uno schema, nel comportamento cinese, perché «si ripete non solo nel Mar cinese meridionale e in Bhutan ma anche in Ladakh, nel versante occidentale della Linea di controllo effettivo, dove Pechino sta cambiando lo status quo sul territorio a suo favore». Lungo le vette della «Line of actual control» i soldati delle due parti continuano a massacrarsi a bastonate (le armi sono bandite) ma negoziati tenuti il 10 ottobre sono falliti perché, accusa il giornale del regime cinese Global Times, l’India «fa richieste non in linea con la sua forza». Altro che diritto internazionale.
L’espansionismo cinese dunque non sembra più essere soltanto quello economico fatto di Nuova via della seta e di sfere d’influenza in cui cadono Paesi in via di sviluppo affamati di prestiti. L’idea di Grande Cina passa anche dalla rivendicazione sempre più pressante di lembi di terra, tratti di mare, linee di confine da spostare a proprio vantaggio. Un po’ alla volta, in quella che è già stata definita «chinese salami slicing strategy», strategia cinese del salame affettato: piccole provocazioni che da sole non rappresentano un casus belli, ma che avanzano un poco alla volta nella direzione voluta.
Così fa sulla terraferma e così – si diceva – fa nel Mar cinese meridionale. «Qui si gioca la partita più importante della geopolitica dell’Indo-Pacifico. Pechino vuole diventare potenza marittima e rivendica il controllo di circa il 90% di quelle acque per il loro valore strategico ed economico» ricorda Francesca Manenti, senior analyst Asia per il Centro studi internazionali Ce.S.I.
«Non per poter disegnare su una mappa qualche chilometro in più, ma perché vi si possono creare avamposti, dunque capacità di proiezione verso l’Oceano indiano. In breve, controllare la principale via di comunicazione navale sul pianeta. Senza contare la conquista delle risorse, ittiche e del sottosuolo marino». Un interesse che si scontra con quello altrui. «I Paesi rivieraschi non possono accettare che quel mare sia sottratto alla loro sovranità, al loro diritto alla libera circolazione e alla loro più grande risorsa di vita e di commercio, ovvero la pesca».
Qui non ci sono confini da spostare, ma l’aggressività della marina anche civile cinese si manifesta in contrasti quasi quotidiani con pescherecci o Guardia costiera altrui. Oppure in mosse come la graduale occupazione da parte di Pechino di alcune isole nel disputato arcipelago Spratly e Paracelso, prima ampliate artificialmente, poi trasformate in caposaldo con aerei da guerra e missili, infine, da settembre, perno di controllo: si pretende che le navi in transito dal Mar cinese meridianale comunichino i propri dati alla Guardia costiera cinese.
Richieste basate su una propria mappa risalente al 1947, in cui era disegnata una linea di nove trattini (Nine dash line) che le attribuiva quasi interamente queste acque. Giustificazioni arbitrarie, e a nulla vale il diritto internazionale (come le sentenze del Tribunale permanente di arbitrato dell’Aja). Tira dritto, prova di forza dopo prova di forza. Come alcuni giorni fa, quando un gruppo di dieci navi da guerra di Pechino e Mosca ha attraversato lo stretto di Tsugaru, Giappone.
Oppure come dal primo ottobre, anniversario della Repubblica popolare, quando almeno 150 jet con la stella rossa hanno iniziato a invadere lo spazio aereo taiwanese. Un atto senza precedenti per riaffermare che l’isola è una provincia cinese e per saggiare la reazione americana.
Ma i muscoli militari in patria si appoggiano su un ritrovato orgoglio nazionale, talvolta su una vera esaltazione sciovinistica. Non è un caso se in quegli stessi giorni di ottobre, nelle sale cinematografiche si spintonassero per guardare un blockbuster epico: La battaglia del Lago Changjin. Parla di un episodio chiave della Guerra di Corea, dicembre 1950, quando per la prima e unica volta il Paese neocomunista combatté faccia a faccia contro gli americani. Avendo la meglio.
Finanziata dal Dipartimento della propaganda per ben 200 milioni di dollari, la pellicola è un trionfo perché – analizza il Global Times – «rispecchia un sentimento pubblico di salvaguardia degli interessi nazionali». Difficile non credergli. L’orgoglio del Dragone cresce di pari passo con le sue spese militari (lievitate in 10 anni da 70 a 180 miliardi di dollari), alla diffusione di influencer noti come «military fanboys» e al citato espansionismo territoriale.
«Contrariamente al passato, oggi l’idea di entrare in battaglia per il territorio è diventata un simbolo della forza e della potenza cinesi, e sacrificarvi vite umane non è più un tabù» scrive The Diplomat, rivista internazionale specializzata nell’area dell’Indo-Pacifico. «Siamo a un livello tale che impegnarsi in un conflitto non danneggerebbe più il potere del Partito comunista, anzi, lo rafforzerebbe».
Forse una visione pessimista del futuro, ma che trova sponda in una reale ombra di revanscismo nazionale nutrito da quei decenni tra Ottocento e Novecento in cui la Cina rimase alla mercé delle potenze straniere (tra cui Regno Unito, Olanda e Giappone). Sun Yat-sen, il «padre» della Cina moderna che contribuì poi a rovesciare la dinastia Qing, creò una «Mappa della vergogna nazionale» con i territori che gli imperatori si erano fatti sottrarre subendo occupazioni, annessione forzate, interferenze e trattati iniqui.
Ma per quanto grande sia, non riuscirebbe a contenere le mire di Xi Jinping, odierno Grande Timoniere.