Contro il traffico di cocaina, il presidente del Paese sudamericano Gustavo Petro non trova di meglio che assoldare come consulente, «data la sua vasta esperienza», un criminale accusato di oltre 600 omicidi. Un accordo che indigna la popolazione e ha come conseguenza quella di «riposizionare» altrove killer e sicari, aumentando in modo abnorme reati e delinquenza.
Cosa sarebbe successo in Italia se, dopo gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, lo Stato avesse siglato un accordo con Cosa nostra nominando come «gestore della pace» Totò Riina? Sarebbe forse scoppiata una rivoluzione se è vero che di una presunta trattativa si parla da 30 anni, in tv e nei tribunali. Di sicuro si sarebbe dovuto dimettere l’intero governo. La Colombia non è però l’Italia e, soprattutto, è in America latina, continente dove ormai la narcopolitica la fa da padrone. Il Paese è il maggiore produttore di cocaina al mondo, solo lo scorso anno ne sono state sequestrate quasi 800 tonnellate, un record allarmante visto che i sequestri di droga corrispondono in media a meno del 10 per cento della polvere bianca esportata.
Così, dopo averlo annunciato a fine luglio su Twitter, lo scorso 14 agosto il primo presidente di sinistra della storia colombiana, Gustavo Petro, ha firmato un decreto in cui ha nominato «gestore della pace» nientemeno che un criminale accusato di oltre 600 omicidi: l’italo-colombiano Salvatore Mancuso, ex capo indiscusso delle Auc, le Autodefensas Unidas de Colombia, il più sanguinario gruppo paramilitare mai attivo a Bogotá. Mancuso, che si faceva chiamare anche «il Signore della Droga» e «Triple Cero», oggi dice di essersi pentito. Ha confessato 300 delitti, per i quali è stato condannato a 40 anni. Una pena però mai scontata perché ha aderito nel 2005 ai benefici della Legge Giustizia e Pace che garantiva l’amnistia ai paramilitari. Nel 2008, l’allora presidente Álvaro Uribe lo estradò negli Stati Uniti dove, dopo aver scontato 12 anni per narcotraffico, i suoi avvocati hanno chiesto per lui asilo politico. A loro dire, se fosse rientrato in Colombia l’ex boss paramilitare sarebbe stato ucciso. Da allora Mancuso, di cui tre anni fa sia l’Italia sia la Colombia hanno chiesto l’estradizione rispettivamente per narcotraffico e crimini contro l’umanità, vive in un centro di detenzione per migranti di Atlanta.
Ora però rischia di tornare da eroe in Colombia. In un decreto, il 244, firmato da Petro alla vigilia di Ferragosto si dice infatti che il capo del più grande squadrone della morte colombiano contribuirà «con la sua conoscenza ed esperienza al processo di disarmo collettivo dei gruppi illegali che operano sul territorio nazionale, dando priorità alle zone dove ha esercitato la sua attività criminale». In sintesi, diventerà consulente del governo per negoziare con i criminali, almeno stando al decreto. «È un’assurdità farlo operare proprio nella nostra regione» protesta Angélica Salsero, leader dell’Associazione delle Vittime di Córdoba, la regione del nord della Colombia dove sono nate le Auc. «Come può essere nominato gestore della pace uno che ha commesso così tanti crimini? È un insulto per tutti visto che a Córdoba non c’era un solo contadino che non vivesse nel terrore di quest’uomo. Sono indignata».
A Petro evidentemente poco importa dell’indignazione di Angélica e neanche gli toglie il sonno che Mancuso abbia ancora due processi aperti in Colombia per altri 600 omicidi, lo sfollamento forzato di un migliaio tra vecchi donne e bambini. Non gli interessa neanche che sia stato ritenuto responsabile di decine di sparizioni forzate. Nell’epoca più sanguinaria delle Auc di Mancuso, furono migliaia di contadini assassinati, con particolare crudeltà, proprio a Córdoba e sulla costa atlantica. Mancuso verrebbe usato per negoziare la pace con il Clan del Golfo, oggi il maggiore cartello della droga del Paese con i suoi 1.800 uomini. Così, da potente boss del crimine è stato trasformato in «parte integrante del sistema giuridico di protezione dei Diritti Umani e la messa in vigore del Diritto Internazionale Umanitario». Il narcotrafficante ha giocato un ruolo importante anche nel nostro paese. Secondo gli investigatori italiani, il paramilitare, il cui padre era di Sapri, ha fatto arrivare almeno otto tonnellate di cocaina a Gioia Tauro, diventando per anni un affidabile partner commerciale della ‘ndrangheta nel mondo.
Non a caso, quando era a capo delle Auc, ordinò ai suoi intermediari di riciclare i proventi della droga colombiana in Toscana e nel Lazio, principalmente in strutture turistiche e nell’acquisto di centinaia di vini pregiati come il Brunello di Montalcino. Questa nuova politica di «pace» di Petro preoccupa molto non solo la Colombia ma anche il resto dell’America Latina, visti i precedenti disastrosi della prima pace, quella con i guerriglieri delle Farc, siglata nel 2016 all’Avana dall’allora presidente Juan Manuel Santos. Il motivo è l’«effetto collaterale» dell’accordo di 7 anni fa, che ha lasciato senza lavoro migliaia di criminali dissidenti dalle Farc contrarie all’accordo, all’Ejercito de Liberación Nacional (Eln) e ai paramilitari. La loro vasta esperienza nel traffico di cocaina si è semplicemente trasferita altrove: in Venezuela, Brasile, Ecuador. Erano colombiani i killer del presidente di Haiti, Jovenel Moïse, due anni fa, così come i sicari che mercoledì 9 agosto hanno ammazzato Fernando Villavicencio, candidato alla presidenza dell’Ecuador. E l’impatto si vede dai numeri. Prima della pace dell’Avana, Quito aveva un tasso di 5 omicidi ogni 100 mila abitanti, nel 2022 ne ha registrati 26 e quest’anno, se il trend attuale continua, la statistica raddoppierà. Un’enormità se paragonato al rapporto di uno ogni 100 mila abitanti dell’Italia.
Preoccupa inoltre l’infiltrazione in Colombia dei due principali cartelli messicani, quelli di Sinaloa e di Jalisco Nueva Generación (CJNG), in guerra tra loro ormai su scala globale. Se ai tempi di Escobar erano a libro paga dei colombiani che li usavano nella logistica del trasporto della cocaina verso gli Stati Uniti, oggi la situazione è completamente ribaltata. I messicani gestiscono senza intermediari la produzione di polvere bianca in Colombia, ma sono ormai presenti anche nei paesi non produttori divenuti hub logistici per l’esportazione, come l’Ecuador, da cui parte più cocaina verso i mercati internazionali, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine. In particolare, la cosiddetta rotta del Pacifico è in pieno boom proprio grazie ai cartelli messicani.
Incurante dell’esternalizzazione di questa violenza, nella prima metà di agosto il governo di Petro e l’Eln, oggi il maggiore gruppo narco-guerrigliero rimasto a Bogotá, hanno avviato l’ennesimo «dialogo di pace». Significativo che sia cominciato 5 giorni dopo la denuncia che proprio l’Eln stava pianificando dal Venezuela un attacco contro il procuratore generale della Colombia. Contemporaneamente avevano minacciato le due principali candidate presidenziali anti Maduro, ovvero Maria Corina Machado e Delsa Solórzano, con frasi affisse su manifesti e propagati nelle reti sociali: come «le forze collettive della guerriglia colombiana dell’Eln ti assassineranno», oppure «Villavicencio è già caduto, ora tocca a te», «morte per María Corina». Non bastasse, a inizio agosto il primogenito del presidente Petro ha confessato alla giustizia colombiana che un ex boss della droga, Santander Lopesierra alias l’«Uomo Marlboro», e un’imprenditore vicino ai paramilitari, Alfonso Hilsaca detto «El Turco», hanno finanziato la campagna elettorale vittoriosa del padre. Oltre a Mancuso, altri due «narcos di Stato».