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I Diritti Umani e l’assurda candidatura di Cuba

I Diritti Umani e l’assurda candidatura di Cuba

La dittatura che reprime ogni libertà e «vanta» oltre mille prigionieri politici (persino bambini sotto i 16 anni) potrebbe entrare nell’organismo Onu che combatte proprio le violazioni della libertà. Una evidente contraddizione.


Segnatevi la data: 10 ottobre 2023. Perché quel giorno a New York, al Palazzo di Vetro, la più antica dittatura delle Americhe potrebbe entrare nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Cuba si è infatti candidata per il biennio 2024-2026, nonostante le «credenziali» elencate da Hillel Neuer, a capo della ong Onu Watch: «È il più grande carcere di prigionieri politici delle Americhe, è un regime totalitario e vieta la libertà di parola». Al 31 agosto, l’elenco dei prigionieri politici sull’isola, aggiornato dall’ong Prisoners Defenders, è di 1.045 persone. Tutti i nomi sono contenuti in un rapporto distribuito a politici, diplomatici e principali gruppi di difesa dei diritti umani. Solo negli ultimi sei mesi se ne sono aggiunti 91 e, tra questi, anche il quattordicenne Ramón David Aroche, arrestato lo scorso 12 agosto (l’ultimo di 36 prigionieri politici bambini).

Il paradosso è che in un rapporto alle Nazioni Unite, ignorato dai media e pubblicato di recente, il regime comunista ha riconosciuto la veridicità di queste cifre. Numeri che oltretutto non comprendono altre centinaia di ragazzini in centri penitenziari chiamati eufemisticamente dalla dittatura «Scuole di Formazione Comprensiva»; peccato che non dipendano dal Ministero dell’Istruzione ma da quello degli Interni. E siano pieni di celle. Al loro interno oggi sono «formati» 150 minori sotto i 16 anni, secondo l’ultimo rapporto del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia.

Ma non finisce qui. Se a fine agosto i prigionieri politici, ovvero persone colpevoli di avere espresso pubblicamente critiche nei confronti della dittatura comunista e per avere esercitato il diritto fondamentale di parola, erano 1.045, oggi a Cuba ci sono oltre 11 mila altri detenuti senza nessun reato, né mai commesso, né mai tentato: sono al 90 per cento giovani afro-cubani non appartenenti a organizzazioni di opposizione, ma condannati in media a tre anni con la fattispecie «pre-penale ». Di che si tratta? Di persone che a detta del regime potrebbero commettere in futuro delitti «a causa della condotta che osservano, in manifesta contraddizione con le norme della morale socialista». Ogni anno, in media e da decenni, all’Avana circa 4 mila persone finiscono dietro le sbarre così; e il nuovo codice penale cubano, approvato lo scorso dicembre, rafforza questo tipo di abusi incompatibili con qualsiasi pretesa di difendere i diritti umani a Ginevra. «Negli ambienti diplomatici il regime sostiene, senza però osare pubblicarlo da nessuna parte, che non condanna più i prigionieri per pre-criminalità perché ha eliminato gli articoli da 72 a 84» dice a Panorama Javier Larrondo, il presidente di Prisoners Defenders. «Ma ciò che il governo non cita sono gli articoli introdotti che permettono che tutto rimanga esattamente come prima. Una prova evidente è che gli oltre 11 mila condannati senza reati non sono stati scarcerati, poiché il regime ha introdotto ulteriori modalità di abuso».

Secondo l’articolo 434.1 del nuovo codice penale cubano, infatti, «l’autorità competente del Ministero dell’Interno può ammonire d’ufficio chiunque compia ripetutamente atti che lo rendano incline a commettere un reato o a violare l’ordine sociale e costituzionale». Inoltre è previsto «fino a 1 anno di reclusione per chi non dà retta a tali ammonizioni ». Sanzioni applicate, fin dall’adolescenza, a tutti coloro che mostrano poco entusiasmo verso la dittatura. Così, la semplice denuncia delle autorità di polizia consente a Cuba di imprigionare, seduta stante e senza possibilità di difesa, chi pur non essendo catalogabile come «prigioniero politico» rappresenta a loro giudizio insindacabile un pericolo per il sistema a partito unico introdotto da Fidel Castro quasi 65 anni fa. Nonostante ciò, Cuba sta facendo di tutto per ottenere il seggio al Consiglio ginevrino delle Nazioni Unite, dove in teoria si dovrebbero denunciare le violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo. All’inizio di settembre, per esempio, il regime ha aperto una mostra fotografica nella hall della sede Onu di New York per ritrarsi come un membro modello del Consiglio per i diritti umani.

L’apologia include immagini delle missioni mediche di Cuba all’estero, che altro non sono che una moderna forma di schiavitù. Dietro gli accordi tra la dittatura e decine di altri paesi (in Italia con la regione Calabria), il regime cubano incassa i salari completi dei medici, a cui finisce solo una piccola parte dei loro stipendi. Inoltre il governo ne ritira i passaporti all’arrivo e impone loro il divieto di ritorno all’isola per otto anni se disertano (come sottolineato anche dai rapporti della Commissione interamericana per i diritti umani e del già citato Comitato dell’Onu per i diritti dell’infanzia). Assurdo che tali accordi siano spesso mediati dall’Organizzazione panamericana della sanità, il braccio latinoamericano dell’Oms che dal 1949 fa parte anche del sistema delle Nazioni Unite.

Il testo introduttivo della mostra fotografica al Palazzo di Vetro, firmato dall’ambasciatore cubano Gerardo Peñalver Portal, afferma che l’Avana si distingue per la sua «protezione dei diritti umani» e la cooperazione internazionale. Sorvolando sul fatto che Cuba non permette elezioni libere né libertà di stampa dal 1959; e ha represso migliaia di manifestanti che chiedevano libertà durante le manifestazioni di piazza l’11 luglio 2021. Molti sono stati condannati a decine di anni di carcere per aver cantato «Patria y Vida», il titolo di una canzone che si fa beffe dello slogan del defunto Fidel, «Patria o muerte». Il caso di Cuba non è isolato. Il prossimo 10 ottobre, infatti, potrebbero ottenere un seggio a Ginevra anche altri due paesi che con i diritti umani fanno a pugni, ovvero Cina e Russia. A Pechino oggi gli uiguri sono massacrati e resi schiavi nel silenzio dei media, mentre il presidente russo Vladimir Putin dal 17 marzo scorso è ricercato della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, nello specifico per la deportazione forzata di bambini dall’Ucraina. Cuba ha comunque molte chance di guadagnare l’ennesima tribuna all’Onu; non a caso, per celebrarne l’entrata il presidente de facto Miguel Díaz-Canel parteciperà alla 77ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si terrà a New York, dove farà il suo discorso in qualità di presidente del «G77 più Cina» e parteciperà al Vertice sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu.

E mentre a Cuba il salario base degli statali è crollato sotto gli otto euro al mese (mai nulla di simile neanche durante il Periodo Speciale dopo il crollo dell’Urss), qualche giorno fa il Moscow Times ha confermato che l’Avana invia soldati in Russia per combattere contro l’Ucraina. Il regime, non potendo più negare l’evidenza, ha denunciando un presunto «schema di traffico illegale di esseri umani». Washington sta valutando il da farsi ma, di certo, la visita all’Onu di Díaz-Canel si preannuncia polemica anche per questo. Oltre a essere una delle tante assurdità del «sistema onusiano», sempre più simile alla Società delle Nazioni sorta tra le due Guerre Mondiali: poco efficiente e molto incoerente.

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