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Porto Franco

Porto Franco

Dispone di ampi poteri. Ma sulle spalle del ministro del Tesoro, storico alter ego del premier Draghi, gravano tanti dossier aperti. Alcuni più recenti come Saipem e altri di lunga data come il Monte dei Paschi di Siena e l’ex Ilva. Su questi il numero uno del Mef gira a vuoto, nonostante il cerchio magico di banchieri d’affari, avvocati e manager di cui si è voluto circondare.


Un uomo più silenzioso di Mario Draghi sarebbe addirittura diventato premier se l’ex banchiere fosse riuscito a salire al Quirinale. Daniele Franco, ministro dell’Economia e delle Finanze, a Palazzo Chigi il soprannome ce l’aveva già da mesi cucito sulle spalle: Alexa, come l’assistente personale intelligente. Inutile dire assistente di chi. Bellunese, 68 anni, ex direttore generale di Bankitalia, ha percorso tutta la sua carriera nel solco draghiano.

Adesso che il governo deve affrontare la Fase Due, gli tocca cominciare a centrare qualche buco in tutte le ciambelle che finora ha cucinato con risultati interlocutori, tra rinvii, cambi di direzione e flop veri e propri. Monte dei Paschi di Siena, Ilva, Saipem, Autostrade, Rete unica. Quante di queste infinite partite saranno ancora da risolvere nella primavera 2023, quando l’Italia avrà un governo eletto dal popolo?

Se per guidare il ministero di Via XX Settembre bastasse una vasta competenza di finanza pubblica, con Franco l’Italia sarebbe a cavallo. Ora che i tassi sono in salita, insieme a spread e inflazione, l’ex Ragioniere generale la ricetta «giusta», volendo, ce l’avrebbe già nella cartellina. Fu poprio lui, il 5 agosto 2011, a consegnare al governo di Silvio Berlusconi la famosa lettera della Bce, in pratica un avviso di sfratto da Palazzo Chigi, firmata da Jean-Claude Trichet e da Draghi stesso. Nella missiva, si leggeva che l’Italia avrebbe dovuto impegnarsi in un duro cammino di riforme del mercato del lavoro, delle pensioni e della pubblica amministrazione, oltre che procedere a un vasto programma di liberalizzazioni, a cominciare dai servizi pubblici locali e dalle professioni. Oggi il governo di Super Mario e Alexa Franco magari è un po’ ostaggio dei balneari, ma potrebbe pur sempre provare a dar seguito a quella famosa letterina.

Il problema di Franco è che con la crisi si è ritrovato seduto anche su una holding di partecipazioni ciclopica. E se colossi come Poste, Eni, Enel, Terna, Fincantieri e Leonardo sono abituati a sfangarsela da soli e a portare ricchi dividendi, è nella gestione dei bubboni che in Via XX Settembre stanno collezionando insuccessi. Dove si sarebbe dovuta fare politica industriale, come sulla rete in fibra ottica, sulla siderurgia, sulle infrastrutture autostradali, il Mef sembra girare a vuoto. Nonostante si sia dotato di un piccolo cerchio magico di banchieri d’affari, avvocati e manager fidati.

Il braccio destro del ministro è il direttore generale Alessandro Rivera, nome da fuoriclasse, ancora miracolosamente al servizio dello Stato nonostante abbia direttamente gestito, dal 2008 al 2018, le grandi crisi bancarie permanenti d’Italia, come le Popolari venete, Banca Etruria, Carige, Mps, Popolare di Bari. Rivera viene promosso nell’estate del 2018 dall’allora ministro Giovanni Tria poi viene confermato da Roberto Gualtieri e da Franco. La sua è una nobile famiglia dell’Aquila, dove possiede ancora un bel castello con torre merlata a San Sisto. Grande sponsor di Rivera è un altro abruzzese doc come Giovanni Legnini, avvocato del Pd ed ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, oggi commissario di governo per i terremoti nel Centro Italia del 2016.

E a proposito di terremoti, Rivera nel 2017 viene anche nominato dal Mef presidente della Società per la gestione di attività (Sga), il veicolo che ha tra i suoi compiti la gestione dei crediti deteriorati delle banche venete messe in liquidazione. Nell’autunno 2019, Sga cambia nome in Amco e ora gestisce oltre 33 miliardi di crediti marci. Quanto valessero davvero quei portafogli lo scopriremo tra pochi anni, intanto i grandi nomi stranieri delle cartolarizzazioni sono scappati dall’Italia per la concorrenza spietata dello Stato.

Oggi Amco è nelle mani di Marina Natale, ex manager Unicredit. La stessa Unicredit è la banca che nei sogni del Pd avrebbe dovuto salvare il Monte dei Paschi di Siena, ma il nuovo amministratore delegato Andrea Orcel ha resistito al pressing della politica. Il dossier Mps, dove l’ex ministro Pd Pier Carlo Padoan ha iniettato 5,5 miliardi di euro per perderne 5 in soli sette anni, è tornato d’attualità per la sostituzione dell’a.d. Guido Bastianini con Luigi Lovaglio, anche lui ex Unicredit, che da a.d. del Credito valtellinese ha già portato il gioiellino di Sondrio tra le braccia dei francesi di Crédit Agricole.

Per la prima volta, lunedì 7 febbraio, l’azionista Tesoro (64 per cento) ha fatto passare un principio importante, anche con la silente Consob di Paolo Savona: si può cacciare un capo azienda senza spiegare il perché. Secondo indiscrezioni, Rivera e Franco ritenevano Bastianini troppo «indipendente» e molto hanno pesato i suoi cattivi rapporti con la presidente Patrizia Grieco, che invece fa parte del cerchio magico di Via XX Settembre. Grieco, ex presidente Enel, si è battuta perché il Monte non chiedesse i danni ai suoi ex manager Fabrizio Viola e Alessandro Profumo, condannati in primo grado a sei anni per i bilanci di Mps. Bilanci che però non avranno certo visto da soli. Ascoltatissima da Franco è poi la penalista Paola Severino.

L’ex ministro della Giustizia, nominata a settembre da Draghi presidente della Scuola nazionale dell’amministrazione, ha difeso con successo il capo dell’Eni Claudio Descalzi nel trappolone Nigeria gate e assiste Giovanni Castellucci, ex a.d. di Autostrade, a processo per il crollo del Ponte Morandi. L’alter ego della Severino per il civile è Andrea Zoppini (56 anni), suo ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Monti, consulente di Tim, del Tesoro e di Via Nazionale. Zoppini è grande esperto della partita Rete unica, ovvero della possibile fusione tra la pubblica Open Fiber (60 per cento Cdp Equity e 40 fondo Macquarie) e la rete 5G di Tim. Anche qui, si vede in controluce il cerchio magico in azione. A portare a bordo gli australiani di Macquarie è stato il loro advisor Claudio Costamagna, banchiere d’affari che Franco e Rivera ascoltano tantissimo.

Anche nel regalo di Stato ai Benetton, che cedono Aspi per ben 9,3 miliardi, al fianco di Cdp sono poi spuntati improvvisamente Maquarie e il fondo Blackrock, portato dall’ex capo di Enel, Fulvio Conti. Visto che i due fondi, insieme, detengono il 60 per cento della nuova Aspi, è sacrilego parlare di «nazionalizzazione».

Il privilegio di operare con soldi altrui e senza limiti di tempo si apprezza bene anche in Ilva. Ad aprile, il Mef ha fatto arrivare 400 milioni alla sua controllata Invitalia per entrare in Acciaierie d’Italia al fianco degli indiani di ArcelorMittal e ha indicato alla presidenza il banchiere d’affari Franco Bernabè, già in Eni e Telecom. La conversione green di Taranto richiederà un altro decennio, oltre a chissà quanti miliardi pubblici, intanto la crisi dell’acciaio continua, le banche creditrici minacciano di chiudere i rubinetti e in Via XX Settembre sanno di essere seduti, incidenza dei tumori a parte, su un’altra bomba finanziaria a orologeria.

Altro dossier che il cerchio magico fatica a gestire è quello di Saipem, controllata da Eni e Cdp, che nella settimana del Festival di Sanremo è crollata in Borsa (-32 per cento in due sedute) arrivando a capitalizzare meno del ben più piccolo concorrente privato Maire Tecnimont (1,2 miliardi contro 1,3 il 9 febbraio).

Chissà se dal cilindro dei soliti advisor uscirà un matrimonio riparatore, con la scusa di fare un bel polo nazionale dell’impiantistica per l’energia. Dopo aver peggiorato al ribasso tre volte in un anno le stime sui profitti (che qui sarebbero oltre 2 miliardi di perdite), Saipem rischia di dover ricostituire il capitale con un aumento da un miliardo e mezzo, dopo i 3,5 del 2016. L’a.d. è un altro fedelissimo del duo Franco-Rivera, ovvero Francesco Caio, l’unico caso al mondo di capo azienda che non se la può prendere con i predecessori, visto che ne era già presidente.

Lo hanno promosso ad aprile da Via XX Settembre, dove la dura meritocrazia che ci si aspetterebbe dal governo dei migliori a volte procede per magie.

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