Il Regno Unito sfrutta la libertà dall’Unione Europea per gestire le questioni più scottanti (come l’indipendenza della Scozia), arrivando a scontrarsi con l’UE in tema di commercio estero. Al tempo stesso, resta partner di Bruxelles per quanto gli conviene. Bilancio di un buon affare.
Londra ritorna al Grande Gioco, serra le fila, guarda oltre l’Europa contenendo le smanie indipendentiste della Scozia e puntando a rinverdire quel ruolo di prim’attore nelle controversie internazionali del tempo che fu. Anche se le prospettive economiche del Regno Unito dopo la Brexit non rassicurano ancora e la crescita del Pil resterà appena positiva per i due anni a venire, il governo conservatore di Rishi Sunak, che ha ereditato una crisi economica e pandemica che hanno colpito duro l’Isola britannica, continua a seguire l’adagio più famoso d’Inghilterra: «Keep calm and carry on». Difatti Londra naviga con la bonaccia, avviandosi ad affrontare una per una le questioni politiche più calde (come il ritorno di Edimburgo nell’Ue); a mitigare la forte immigrazione con decisioni draconiane (vedi lo spedire gli immigrati irregolari in Ruanda); a risalire la china economica puntando tutto sulla «Golden Britain».
Ovvero Sunak basa la strategia politico-economica sull’assunto che il commercio inglese – ora che «finalmente» Londra ha le mani libere dai vincoli stringenti di Bruxelles – debba guardare oltre il Vecchio continente, in direzione dell’Indo-Pacifico, dove gli antichi partner possono integrare quando non sostituire gli scambi economici con l’Unione europea. Un retaggio del passato imperiale che continua a orientare le scelte politiche. Al contempo, però, il Regno Unito vuole mantenere gli «accordi di continuità» tra l’Ue e i suoi partner, per non gettare alle ortiche il recente passato unitario e quei golosi trattati di libero scambio già in vigore tra Bruxelles e una sessantina di Stati terzi (tra cui i principali, per dimensione dei mercati, sono oggi Canada e Giappone). In tal senso va letta l’intesa raggiunta tra il governo britannico e la Commissione europea sulla partecipazione di Londra ai programmi Horizon Europe e Copernicus a partire dal 2024 nell’ambito della ricerca e innovazione, e dell’osservazione satellitare. «Quest’epoca di passaggio, dopo lo choc iniziale della Brexit, che ha segnato un peggioramento netto dei fondamentali economici e ha prodotto una serie negativa di governi di breve durata, impone oggi realismo e passi maggiormente calibrati» commenta Robert Newbury, esperto d’intelligence economica. «Se un ritorno agli antichi fasti appare oggi inverosimile, tanto il governo quanto la corona guardano con crescente interesse al legame con il Commonwealth, e al contempo sono inclini a ripristinare la vecchia Trans-Pacific Partnership», ovvero quella grande area di libero scambio nella regione del Pacifico nata per volere degli Stati Uniti e da questi stessi poi rinnegata, a causa delle politiche ultra protezioniste imbastite dalla presidenza di Donald Trump.
Scrive in proposito l’Ispi, think tank partecipato dal governo italiano: «Per il Regno Unito, entrare in un grande accordo plurilaterale ha sicuramente un grande valore strategico: economicamente, la nuova area di libero scambio vale 12 mila miliardi di dollari (circa il 15 per cento del Pil mondiale) e include 580 milioni di potenziali consumatori, anche se in realtà Londra ha già accordi commerciali in vigore con 9 degli 11 Stati membri della Trans-Pacific Partnership. A livello geopolitico, l’ingresso nell’accordo offre invece alla Gran Bretagna un’importante piattaforma su cui costruire e rafforzare la propria proiezione nella regione dell’Indo-Pacifico, considerata prioritaria dal governo di Downing Street in chiave prospettica». Ecco dunque il Grande Gioco, come ai tempi in cui «il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno mediamente 150 chilometri quadrati, mentre la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani» ricordava Sergio Romano a commento del libro che per primo ha introdotto al grande pubblico il concetto di geopolitica.
Chiudiamo questa parentesi geoeconomica con alcuni dati forniti sempre dall’Ispi in relazione all’uscita dall’Europa: «Rispetto al periodo pre-Brexit e pre-pandemia, il Regno Unito è riuscito ad aumentare i propri flussi commerciali già nel 2022, anche se alle spese di una notevole crescita dell’import che si è tradotta in un significativo incremento del deficit commerciale (passato da 224 miliardi di dollari nel 2019 a 288 nel 2022). Il commercio bilaterale con l’Ue ha registrato una dinamica simile, calando nel 2020 e 2021 per poi riprendersi superando i livelli pre-Covid nel 2022, ma anche in questo caso con un ampliamento del deficit derivante dalla crescita dell’import. Il prossimo stress-test sarà con l’introduzione dell’ultima tranche di controlli sulle merci agro-alimentari in arrivo dallla Ue, a partire dalla primavera 2024». Sarà contento di questi numeri Nigel Farage, che come un Mosè irriverente ha guidato gli inglesi fuori dai vincoli continentali e condotto la Gran Bretagna in una terra incognita: l’ex politico dello Ukip fautore della Brexit, può bearsi del fatto che almeno non passerà alla storia come l’uomo che ha rovinato il Paese, semmai come colui che ha restituito orgoglio a una nazione che aveva smarrito il proprio ruolo di leadership nello scacchiere internazionale.
Certo, gli inglesi stanno ancora pagando cara la scelta di Farage, ma i punti chiave delle ragioni che sottendevano a questa volontà, erano e rimangono validi: quanto agli Affari esteri, era vero che far parte dell’Ue limitava l’influenza internazionale del Regno Unito, escludendo ad esempio la sua presenza come membro indipendente dell’Organizzazione mondiale del commercio e negandole quella disinvoltura in ambito militare che oggi ha invece ritrovato (non a caso, l’esercito e l’aeronautica inglesi sono in prima fila nella guerra in Ucraina e l’Union Jack sventola nelle acque davanti allo Yemen, dove la marina inglese cannoneggia i ribelli Houthi non meno degli americani). Quanto alla sovranità, il Regno Unito ha ora maggiore controllo sulle proprie leggi e regolamenti, senza il rischio di perdere sovranità nazionale a causa di politiche europee imposte dall’alto. Da ciò deriva anche un beneficio per la sicurezza nazionale: i maggiori controlli alle frontiere e le libere scelte del governo hanno permesso ad esempio di selezionare un’immigrazione sempre più qualificata al lavoro, e parimenti consentono l’espulsione e il respingimento forzato di quote di richiedenti asilo sbarcati illegalmente, che Londra ora può spedire in Africa grazie a un accordo (contestatissimo in patria) con il Ruanda.
Circa i flussi di denaro, il Regno Unito ha invece recuperato miliardi di sterline, reindirizzando le spese in servizi utili alla popolazione britannica – uno su tutti, il Sistema sanitario nazionale –, grazie all’assenza di quote fisse da destinare all’Unione in vari settori (come quello agricolo) e ricalibrando il commercio, come detto, verso altre potenze industriali quali Giappone, India e Stati Uniti. Inoltre, la Brexit ha liberato il Paese da processi burocratici lenti e assai poco flessibili. Resta ancora aperto il caso della Scozia, per la verità una costante millenaria nella storia dell’Isola. Lo Scottish national party (Snp), la formazione indipendentista che guida il governo locale della Scozia, continua a chiedere l’indipendenza dal Regno Unito e il ritorno in tempi rapidi nell’Ue. «Noi scozzesi siamo stati esclusi dall’Unione europea contro la nostra volontà» ripetono da tempo il premier scozzese Humza Yousaf e il suo ministro degli Esteri Angus Robertson. «Nel referendum del 2016 la maggioranza dei nostri elettori ha votato per restarvi. Se ora otterremo l’indipendenza, chiederemo di aderire all’Unione il prima possibile». Ma quel «se» è la linea rossa che nessun governo britannico consentirebbe mai di superare. Di fronte al rifiuto di Londra di concedere un secondo referendum per l’indipendenza, l’Snp ha una nuova strategia: conquistare la maggioranza assoluta dei seggi scozzesi alle legislative (previste entro l’anno), per negoziare un trasferimento di poteri a Edimburgo. Anche se il leader dell’Snp Yousaf, depotenziato da un’inchiesta sulle finanze del partito e dalla recente sconfitta alle suppletive, non sembra poter emulare Nigel Farage. Tantomeno passare alla storia come un emulo dell’eroe della patria del XIV secolo, William Wallace.