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Zuffa fiorentina per la poltrona di Sindaco

Zuffa fiorentina per la poltrona di Sindaco

Il Pd che da decenni governa il capoluogo toscano ha scelto la sua candidata sindaco (senza primarie e con la rabbia della sua base). Ma Matteo Renzi si appresta a movimentare da par suo la campagna elettorale. E il centrodestra? Ha alcune chance.


Qui tutti si aspettano la mossa del cavallo. Che in parte già c’è stata. Comunque la metti, l’ombra di Matteo Renzi resta ben salda al centro della giostra politica fiorentina, con le bizzarrie, i colpi di genio, e anche le «trappole». E poi, di riflesso, di quella della Regione Toscana. Se Renzi perde la battaglia di Firenze per il nuovo sindaco, chiude la sua stagione. È stato bello, finché è durato. Cioè poco. Troppo poco, per com’erano le premesse. Da uomo più potente d’Italia al «più antipatico» (l’aggettivo è suo) nello spazio di due o tre anni.

Il Partito democratico è terrorizzato da quello che può inventare l’ex sindaco, perché qualsiasi idea gli venga, può nascondere l’essenza di una polpetta avvelenata. Come questa storia delle primarie di coalizione del centrosinistra, lanciata dai renziani, che ha lo scopo di mandare all’aria la scelta, già fatta, del candidato Pd per Palazzo Vecchio. Che poi è la sua ex sostenitrice Sara Funaro, sponsorizzata dal suo ex amico e sodale Dario Nardella, regista dell’operazione. Il sindaco uscente guida l’assalto (finale?) a quel che resta del Giglio magico e cova rivincite: è una partita a poker, se dovesse vincere la strategia nardelliana il renzismo sarebbe alla frutta. Qui sono tutti un po’ «ex», perché Matteo ha fatto e disfatto per anni, da sindaco e da leader pd, e come succede, ha avuto dalla sua parte, solleciti a tirargli la giacca e pronti all’applauso facile. Molti ora, quando passa Renzi, fingono di non vederlo. Ma è un errore, perché almeno qui il suo zoccolo duro ce l’ha ancora. Forse il 10 per cento, forse qualcosa in più. Infatti il Pd, con insolito largo anticipo, preoccupato dalle mosse renziane, ha scelto la sua candidata, senza pensare troppo ai programmi, che pure sono stati il totem intoccabile e, soprattutto, ignorando le primarie, che avrebbero potuto nascondere sorprese e agguati.

È curioso come, nel volgere di poco tempo, sia stato possibile erigere e poi demolire una fortezza della partecipazione. In altre elezioni il Pd ha sottolineato come le primarie fossero un’estensione della democrazia e della partecipazione. Ora ha cambiato idea. Non solo a Firenze ma anche in Sardegna, in Abruzzo e probabilmente, secondo Bonaccini, anche in Emilia-Romagna. All’alba del nuovo millennio, diciamo più o meno una ventina di anni fa, il modello americano delle primarie veniva considerato dalla sinistra una conquista, un passaggio obbligato verso la scelta di qualunque cosa. Perfino per decidere chi dovesse essere il responsabile di un condominio a sinistra si doveva consultare gli iscritti. Le primarie, se non ben pilotate, come è quasi sempre successo, rischiano di mandare all’aria i piani dell’establishment di un partito (il caso Schlein insegna). I leader invocano con enfasi la scelta popolare, ma poi vogliono decidere loro chi candidare a sindaco, a segretario e a presidente di una Regione. Così si spiega la corsa dei dem a mettere il cappello sulla poltrona di Palazzo Vecchio. Un accordo con la Sinistra-sinistra, che tenga lontano le sirene di Renzi. Ed è un rischio, perché nessuno è in grado di garantire – anche se i sondaggi paiono confortanti – che i dem abbiano i voti per vincere al primo turno senza Italia Viva.

Lo slogan che spinge l’ottimismo democratico è «sconfiggere la destra», prima ancora dei programmi (non pervenuti). Il partito è convinto di avere la ricetta vincente, senza ascoltare la base o confrontarsi con gli alleati veri, presunti o possibili. Si parla di «futuro della città» ma nessuno spiega che cosa significhi. Evidentemente diverso dal presente che quasi a nessuno piace. A parte a chi lo ha gestito fino a oggi, cioè proprio al sindaco Nardella e, al di là delle parole ridondanti da campagna elettorale, anche alla candidata Funaro, che con Nardella ha fatto l’assessore per dieci anni di fila e dunque è considerata l’espressione di una continuità dinastica. Come farà a esprimere le diversità dalla linea nardelliana è tutto da vedere. Ma è una strada obbligata se vuole convincere quanti sono stanchi della solita minestra, ormai da quasi trent’anni (l’ultimo fu il pentapartito che si esaurì nel 1995) che non produce grandi entusiasmi.

I dem, hanno condiviso la scelta con un po’ di cespugli (Azione, +Europa, Sinistra italiana) e confidano nella vecchia e inossidabile fedeltà di quel che rimane del suo popolo, senza chiedersi davvero se la città la pensa come l’assemblea del Pd. Se avessero sondato gli umori, i notabili si sarebbero accorti che i dissensi sono parecchi. Per il metodo più che per la candidata prescelta. E perché la mitica cattedrale rossa è ridotta a chiesina di campagna. Un simpatizzante deluso così si è sfogato sui social: «Il Pd pensa che di fronte allo spauracchio della destra, i soliti vengano comunque a votarti, anche se fino al giorno prima li hai ignorati o presi a pesci in faccia in malo modo. E comunque anche se quella parte dei “tuoi” che hai preso a pesci in faccia dovesse non votarti, starebbe comunque a casa e non avrebbe mai il coraggio di organizzare una candidatura alternativa nel tuo campo, e quindi vinci in ogni caso perché l’unico avversario è la destra, che dalle nostre parti non riesce ad esprimere candidature credibili».

Questa volta però il centrodestra sente odore di contendibilità e potrebbe non sprecare l’occasione propizia. Magari candidando, come sembra, una personalità solida, il direttore degli Uffizi Eike Schmidt. Per ora i cocci della sinistra sono stati tenuti insieme dall’antirenzismo. Il rottamatore lo sa e sta giocando il ruolo che gli riesce meglio, quello del guastatore. Se riuscisse a portare il centrosinistra al ballottaggio, tutto diventerebbe possibile. Intanto, annusato che molti delusi si aspettavano le primarie e che così avrebbe messo in difficoltà il Pd, Renzi ha candidato la vicepresidente della Regione, Stefania Saccardi, che ha solleticato le primarie di coalizione a marzo prossimo coinvolgendo quindi la stessa Funaro e Cecilia Del Re, ex assessore uscita dalla giunta Nardella e poi autocandidata respinta dai dem. Se il Pd ignorerà quest’ipotesi, Saccardi e Del Re punterebbero ad accogliere gli arrabbiati dem e questo potrebbe costare caro al partito di Elly Schlein e al «regista» Nardella. Senza contare che con effetto domino salterebbero subito gli accordi in Regione, dove Italia Viva sostiene il governatore Giani. Renzi ha già minacciato che «se il Pd vorrà fare a meno di Stefania Saccardi in giunta, noi automaticamente usciremo da tutti i governi della Toscana dove siamo alleati». È una sfida. Che fa tremare il già fragile centrosinistra, da cui per ora restano fuori i Cinque stelle, che per la verità non hanno una grande forza elettorale ma potrebbero provocare un terremoto se scendessero in campo. Magari non rispolverando l’antica ipotesi di un’intesa nazionale Schlein-Conte, che a Firenze convergerebbero su Tomaso Montanari, ma consegnando il testimone di una lista civica proprio al rettore dell’università per stranieri di Siena. Con effetti imprevedibili.

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