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Europa green, indietro tutta

Europa green, indietro tutta

Obblighi rimandati. Imposizioni addolcite. Direttive che si fanno accomodanti. L’Unione europea sembra rendersi conto della realtà dei suoi cittadini e si avvicina a chi combatteva gli eco-talebani. Le cose si possono fare con più calma, a quanto pare.


Non sano pragmatismo, bensì machiavellismo. L’insana declinazione ecofuribonda della sacrosanta transizione verde rallenta. Anzi, sembra proprio aver ingranato la retromarcia. «Indietro tutta», come la trasmissione cult di Renzo Arbore. Case, auto, imballaggi, agricoltura, emissioni. Meno intransigenza, più realismo. Ma non per convinzione, appunto. Solita convenienza elettorale, piuttosto. L’anno prossimo si vota per le europee. E la maggioranza, fanatismo socialdemocratico assieme a moderatismo popolare, vacilla. Soprattutto per il green deal, che vorrebbe imporre a cittadini e imprese. Lacrime e sangue. In cambio di obiettivi irreali, competitività azzoppata, borsellini sguarniti. Imbambolata di fronte alle emergenze planetarie, dalle guerre alle crisi, l’Europa ha trovato unica ragion d’essere nella lotta lampo al cambiamento climatico. Che nessuno sottovaluta, certo. Ma che rischia di diventare una calamità economica.

Non sono venuti a miti consigli, però. Temono solo di perdere le elezioni. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, tiene immensamente alla sua riconferma. E i socialdemocratici sono disposti a tutto pur di non venire sostituiti dai conservatori, l’Ecr guidato da Giorgia Meloni. Gli alfieri dell’ursulismo anche in patria arrancano. Emmanuel Macron, presidente francese, sempre più isolato. Olaf Scholz, primo ministro tedesco, schiacciato da un’inedita decrescita. E Pedro Sánchez, in Spagna, a capo del governo Frankenstein, con tifosi di Hamas e indipendentisti. Non restava altro che scardinare il dogma assoluto. Benedicendo persino la dipartita dell’onnipotente guru green, Frans Timmermans, fu commissario alla Transizione ecologica. Candidato premier Olanda, un mese fa viene sonoramente sconfitto dal leader della destra, Geert Wilders. A decisiva riprova di quanto sia ormai impopolare la sua crociata verde.

Tutti vorremmo abbattere l’inquinamento e vivere in città lussureggianti, per carità. Ma non sarà il furore ideologico e tafazziano a salvare il pianeta. Le case green, per esempio. Dopo una folle corsa a perdifiato, l’Europa torna ora sui suoi passi. Gli immobili residenziali dovevano inizialmente rientrare nell’iperuranica classe D entro il 2033. Ovverosia: otto milioni di edifici da adeguare entro i prossimi dieci anni. Uno su quattro. Dunque: cappotto termico, nuovi infissi, caldaia a condensazione. Spesa media: dai 40 ai 60 mila euro. Peccato che il 77 per cento degli italiani abbia sul conto meno di 12.500 euro. Un quarto di quanti ne servivano per adeguare la casa ai dettami di Bruxelles. Suggerimenti? Vendere gli organi vitali? Saltare la cena? Mandare i figlioli in miniera? Così, dopo lungo e sbalorditivo incaponimento, due settimane fa gli euro governanti si ravvedono. Proprio in vista della prossima tornata. La turbo direttiva approvata lo scorso marzo diventa più accomodante: con una certa flessibilità, ogni Stato si adopererà per ridurre il consumo energetico del 16 per cento entro il 2030 e del 20-22 per cento entro il 2035. E l’obbligo di rottamare le caldaie a gas viene spostato al 2040. Il centrodestra europeo, che si batte gagliardamente contro la deriva ultra ecologista, esulta. I progressisti, costretti a sconfessare sé stessi, abbozzano.

La retromarcia sulle auto elettriche, invece, comincia qualche mese fa. Anche guidare una Tesla super accessoriata, in effetti, potrebbe essere un’ottima idea. Ma lo stesso commissario al Mercato interno, Thierry Breton, ammette: «Una quota significativa della popolazione europea non può permettersi di acquistarla». C’è poi l’arcinoto problema delle colonnine, introvabili e malfunzionanti. Senza dimenticare che, come avverte ancora Breton, saranno distrutti «600 mila posti di lavoro». La Cina è il primo produttore al mondo di auto elettriche. Ma soprattutto rimane padrona incontrastata della filiera, a partire dalle materie prime: vedi il litio, necessario per le batterie. Impipandosene di disboscare, inquinare, smaltire. Secondo i dati della stessa Commissione europea, Pechino causa il 29 per cento delle emissioni inquinanti mondiali di gas serra. E l’Europa, che continua a fustigarsi? Il 6,7 per cento. Davvero è ragionevole cancellare i motori tradizionali per decreto, spalancando il mercato ai cinesi?

L’auto elettrica rimane una delle ossessioni dello sciamano Frans. Vuole bonificare il globo terraqueo inquinando il libero mercato. Il super stato europeo ha deciso per tutti, a dispetto dei voleri dei sudditi e di ogni legge macroeconomica: dal 2035 saranno venduti solo veicoli a zero emissioni. Scadenza che però, rivela una relazione dei Corte dei conti europea sugli «obiettivi in materia di energia e di clima», verrà probabilmente posticipata. Così come lo strombazzatissimo impegno generale: ridurre le emissioni del 55 per cento entro il 2030. «Scarsi segnali indicano che le azioni intraprese saranno sufficienti per raggiungere l’obiettivo» scrivono gli esperti contabili lussemburghesi. Per non parlare dell’ancor più lunare traguardo delle zero emissioni, fissato per il 2050.

Breton lascia intendere che quell’inevitabile retromarcia è ingranata. Nel 2026, avverte, scatterà una clausola di revisione volutamente enigmatica. E nonostante resti fissata sul calendario l’imminente catastrofe, invita comunque le case automobilistiche a sfornare motori a combustione. Da inviare ufficialmente in Africa e America Latina, dove la domanda rimarrà sostenuta. Comunque, si vedrà. Di certo, la produzione di veicoli elettrici in Europa rallenta. In Italia le vendite stagnano al 3,9 per cento. Mentre crescono le speranze che Bruxelles approvi i biocarburanti, estratti dagli oli vegetali. Sono l’avanguardia dell’Eni, il nostro colosso energetico. Il governo Meloni farà di tutto per ottenere un via libera che sarebbe salvifico per il settore.

Ecco, a proposito. Dopo aver deciso il divieto di carne coltivata, altra ossessione progressista, incassa pure una vittoria sulla riduzione dei fitofarmaci. Gli antiparassitari, insomma. Un provvedimento che, secondo Confagricoltura, avrebbe fatto perdere il 30 per cento dei raccolti. Spalancando le porte all’importazione da Paesi extra Ue, con regole sanitarie e ambientali più lasche: dal vino al pomodoro. Anche la normativa sugli imballaggi è stata rivista. In sintesi: prevedeva riuso selvaggio e meno riciclo, dove invece l’Italia vanta percentuali altissime. Settore, dunque, a rischio. E soliti aggravi per i consumatori. Si è arrivati, pure stavolta, a maggiore flessibilità.

Quella, del resto, andata in scena anche alla COP28 di Dubai, la conferenza dell’Onu che si è conclusa lo scorso 12 dicembre scorso. Si sperava nel «phase out» dei combustibili fossili: l’eliminazione di petrolio, gas e carbone. S’è arrivati alla più sfumata «transitioning away»: la progressiva fuoriuscita. Compromesso che, al di là dei toni trionfalistici, non può certo soddisfare il segretario generale dell’Onu, António Guterres, vessillifero del catastrofismo climatico. Già quest’estate aveva dovuto incassare la nomina di Jim Kea al comando dell’Ipcc, l’agenzia climatica delle Nazioni unite. Un illustre fisico scozzese che, appena eletto, chiarisce: «Il mondo non finirà se si riscalda più di 1 grado e mezzo». Confutando quindi il mantra di Guterres, reiterato pure a Dubai davanti agli insensibili petrolieri.

In Arabia Saudita, dopo le superbe prove nelle precedenti edizioni, non s’è vista invece Greta Thunberg: sacerdotessa green da cui tutto discende, giovane attivista trasformata in rivoluzionaria pensatrice. Per i suoi Friday for future sono momenti così così. Ma anche gli altri movimenti che esigono giustizia climatica non vivono un periodo esaltante. Degenerazioni e fanatismo non giovano. A furia di imbrattare opere d’arte e bloccare tangenziali, i giovani virgulti ambientalisti si sono fatti detestare persino dai più bendisposti. E a Dubai, nemmeno un urletto o un corteo. Quanta nostalgia, però. Nel 2021, in quel di Glasgow, Thunberg sbertucciava tutti microfono in mano: «È solo un bla bla bla». Nella terra dei petrolieri, invece, s’è vista solo qualche ragazza giapponese vestita da Pikachu, uno dei Pokémon più deliziosi tra l’altro, che garbatamente invitava a dire «Sayonara» al petrolio. Non ci sono più nemmeno le Grete di una volta.

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