Rinunciare a difendere le produzioni agricole nazionali e far spazio alle importazioni, anche di qualità discutibile, che magari arrivano da Paesi non rispettosi dei diritti umani. L’Unione va avanti con la sua politica. Tra gli obiettivi: mettere a riposo il 20 per cento dei suoi terreni. La ricchezza degli Stati-membri come l’Italia (ma anche l’alimentazione e la salute dei suoi cittadini) vengono dopo.
L’Italia con il record di valore aggiunto agricolo nel 2023, un export da oltre 60 miliardi di euro o, per dirla con altre cifre, un quarto del Pil affidato all’agroalimentare (lo scorso anno, invece, a causa del grano la Francia ci aveva superato – 43,5 miliardi di euro contro 38,4 – anche se la Germania restava lontanissima, sotto i 30 miliardi), ecco per tutti questi motivi il nostro Paese si sentiva già «milionario». Invece, parafrasando Gennaro nel capolavoro napoletano di Eduardo De Filippo, si trova a esorcizzare il futuro: ha da passà ’a nuttata. Perché di «passata» si tratta, ma quella di pomodoro. Ha fatto grande Napoli in cucina, nei campi e nell’industria – grazie a un piemontese: Francesco Cirio – e ha esteso il successo al Mezzogiorno, ma ora è la spia rossa di un decadimento dell’agricoltura italiana, conseguente alle scelte della Commissione europea in carica. Succederà tra qualche settimana con la vendemmia e il vino (stiamo perdendo la leadership produttiva) con l’extravergine di oliva (200 mila tonnellate se andrà bene, siamo passati da primi a ottavi nel mondo), con la frutta e la verdura (dopo la batosta dell’alluvione in Romagna) dove l’import, due milioni di tonnellate, ha superato l’export pari a 1,7 milioni. L’Italia, insomma, sta diventando un Paese fortemente deficitario nel settore agricolo.
Difficile occuparsene mentre tutti si affannano a celebrare i nostri fasti gastronomici, con la cucina italiana ufficialmente candidata a entrare nel patrimonio Unesco (non se ne parla però prima del 2025). La scorsa settimana a Pompei i ministri dell’Agricoltura, della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, della Cultura Gennaro Sangiuliano, il direttore del Parco storico archeologico Gabriel Zuchtriegel e l’amministratore del Poligrafico Francesco Soro, con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, hanno presentato il logo scelto per sostenere l’iniziativa dell’Accademia della cucina. Lo hanno elaborato gli allievi della Scuola della medaglia del Poligrafico: si vede una padella in cui saltano stilizzati i profili delle nostre città ed appare francamente modesto. Un anticipo delle vacche magrissime che ci aspettano?
Ripartiamo appunto dal pomodoro. È iniziata la raccolta di quello da salsa, un primato fino allo scorso anno dei nostri campi. Ebbene la Cina ci ha superato: ha prodotto 7,3 milioni di tonnellate, noi arriveremo a circa cinque milioni. La colpa viene data al clima impazzito. La verità forse è che il pomodoro cinese costa la metà. Dicono che nel Foggiano, dove si concentra il 19 per cento della nostra produzione, ci sia lo sfruttamento dei migranti stipati nei ghetti. Il sindacalista con gli stivali Aboubakar Soumahoro è diventato onorevole con e in queste campagne. In Cina i pomodori li raccolgono gli Uiguri nello Xinjiang. Che questa etnia sia rinchiusa nei campi di concentramento, che Pechino proceda a una pulizia etnica sterilizzando a forze le donne, avendo già cancellato quattro milioni di persone in cinque anni, pare siano effetti collaterali.
Intanto la Cina ha raddoppiato l’export di passata di pomodoro verso l’Italia e l’Europa. Che non vuole coltivare per non «sporcare» il pianeta… Per noi il pomodoro vale 7 mila imprese agricole, più di 100 aziende di trasformazione. Ci lavorano 10 mila persone e il fatturato complessivo sfiora i quattro miliardi e mezzo di euro; ma a Bruxelles queste peculiarità non interessano. Anche perché toccano solo marginalmente i Paesi del Nord. La controprova di tale disinteresse? Mentre Usa, Canada e Regno Unito hanno già approntato leggi per bloccare i pomodori cinesi che violano i diritti degli Uiguri, nella Ue niente si è mosso. Si sa che i diritti umani – si veda lo scandalo del Qatargate nei mesi scorsi – nei palazzi Ue sono a geometria variabile e oggi il solo diritto da tutelare è l’eco-ansia. La Commissione europea, rovesciando il saggio principio di Thomas Hobbes, sostiene che «primum philosophari deinde vivere». Prima la teoria, poi la vita dei cittadini dell’Unione. Tanto si può sempre importare i prodotti. Così il Vecchio continente, con l’Italia in testa, si avvia a restare senza più terra, una tavola che non prevede il campo coltivato.
Il vicepresidente esecutivo Frans Timmermans appena è stata approvata la legge sul ripristino della natura ha affermato: «Noi andiamo avanti: senza natura è in pericolo la democrazia». Parole grosse? Forse, ma il martellamento sull’emergenza verde funziona. Al punto che il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in accordo con altri cinque capi di Stato mediterranei, accorato mette in guardia: «Non c’è più tempo, è necessario agire ora». Gli fa eco Papa Francesco che da Lisbona, dove si sono riuniti i giovani, striglia i cosiddetti eco-negazionisti: «Il pianeta è minacciato». Già. Rischiamo però che non ci sia più cibo. I pomodori sono un esempio palmare: l’Europa ha deciso di mettere a riposo il 20 per cento delle sue terre, di eliminare concimi chimici e pesticidi (meno la metà entro il 2035, in futuro si prevede solo il «biologico») e la produzione crolla. Eppure i Paesi dell’Ue sono responsabili appena dell’8 per cento di CO2, tuttavia comprano dalla Cina che di anidride carbonica ne emette quattro volte tanto.
C’è chi si è fatto i conti di cosa significa il divieto verde per i nostri campi. Il centro studi Divulga, uno dei maggiori think tank di economia agraria, sostiene che per effetto delle politiche green si avrà una contrazione media delle produzioni europee del 20 per cento con punte fino a un terzo in meno, per esempio le mele, e un aumento dei prezzi dei prodotti agroalimentari come olive, uva e luppolo tra il 25 e il 50 per cento. Le importazioni nette dell’Ue di mais, colza e agrumi dovrebbero crescere rispettivamente del 209, del 98 e del 92 per cento. Molto marcate le ripercussioni per riso (+ 31 per cento di importazioni e – 82 di export), frumento (+18 per cento di import e – 82 di esportazioni e latte (19 per cento di aumento d’ importazioni e – 157 di vendita all’estero). In questi numeri c’è tanta Italia: nelle mele siamo leader mondiali e ne spediamo oltre la metà all’estero; nel riso siamo i primi in Europa e ne esportiamo il 52 per cento; siamo al vertice per i formaggi, con un export per 4,4 miliardi di euro, così come nella pasta con 2,2 milioni di tonnellate esportate per due miliardi e mezzo d’incasso.
Per colpa delle politiche dell’Europa, però, dovremo importare sempre più e vendere sempre meno. Dipendiamo già adesso da Stati stranieri per circa metà del grano tenero (importiamo 4,5 milioni di tonnellate soprattutto da Ungheria, Francia, Polonia) e per un terzo di quello duro (compriamo 2,2 milioni di tonnellate, specialmente dal Canada). Non va affatto meglio per la risorsa ittica. Sempre l’Europa vuole fermare la pesca a strascico. Eppure nel Mediterraneo tutti prelevano tranne che gli italiani. In vent’anni abbiano perso il 28 per cento della flotta, peschiamo meno di 130 mila tonnellate all’anno. Su dieci pesci che mangiamo – siamo forti consumatori con 24 chili a testa contro i 19 di media europea – otto arrivano dall’estero. Tutti, però, si lamentano dell’inflazione alimentare. Dovrebbero farlo anche i tedeschi che hanno il carrello della spesa che costa il 13 per cento in più, ma barattano il «caro-kartoffeln» con le automobili vendute ai cinesi. E costringono l’Europa ad adeguarsi.
C’è anche chi dice no a tutto questo. È il caso di Paolo De Castro già ministro dell’agricoltura nei governi di Romano Prodi politico e tecnico di punta del Pd a Strasburgo, che è stato chiarissimo: «Frans Timmermans dice sciocchezze sulla carne sintetica, l’idea di equiparare il vino alle sigarette è pura follia, e questa Commissione che ha in mente lo Stato dietetico e vuole farci smettere di coltivare ha una posizione fuori dal tempo». Nonostante ciò, a settembre rispunterà il Nutri-score, l’etichetta a semaforo per gli alimenti, si tornerà a insistere sulla carne coltivata, gli insetti a tavola, i campi da lasciare incolti. Perché come dice Sergio Mattarella: «Non c’è più tempo». Forse al nostro presidente bisognerebbe sottoporre le tabelle dell’Ispra (l’Istituto indipendente che si occupa dell’ambiente). L’Italia ha diminuito le sue emissioni in 30 anni del 19,9 per cento e vale lo 0,9 per cento di quelle mondiali. L’agricoltura le ha ridotte del 13,2 per cento e contribuisce per meno di 33 milioni di tonnellate di CO2, all’anno pari al 7,8 per cento delle emissioni totali (meno del 45 per cento di quelle agricole proviene dalla «famigerata» zootecnia). Però i pomodori è sempre meglio comprarli in Cina…