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Europa, questa Unione è da rifare

Europa, questa Unione è da rifare

Sul Green deal e sulla difesa comune, sulla politica agricola e sull’immigrazione… L’Unione mostra tutti i suoi limiti con decisioni lunghissime, spesso incomprensibili, e giochi che favoriscono i Paesi più forti. Per la rabbia e lo scontento dei cittadini il voto di giugno rischia il flop, innescando una crisi definitiva. A meno di un cambio radicale.


Se l’Europa fosse un prodotto, venderlo non sarebbe affatto facile. Dai «consumatori» incasserebbe poche stellette e tante recensioni negative: le critiche degli agricoltori, per esempio, che contestano in massa la politica agricola comune e i vincoli imposti dal Green deal; oppure i commenti feroci degli automobilisti della classe media, che vedono come il fumo negli occhi il blocco delle vendite di vetture con motore a scoppio dal 2035; o, ancora, le arrabbiature dei cittadini per l’incapacità dell’Unione di contenere il flusso degli immigrati irregolari.

Povera Europa. Vuole difendere l’ambiente, ma le sue politiche lasciano campo libero ai cinesi che controllano mediamente il 65 per cento delle tecnologie necessarie per la transizione green: il 54 per cento delle auto elettriche fabbricate nel mondo e il 75 per cento dei moduli fotovoltaici sono «made in China». E queste politiche verdi scontentano i proprietari di case che dovranno spendere in media dai 20 a 55 mila euro nei prossimi 10 anni per adeguarsi alle direttive della Ue. Le elezioni si avvicinano ma l’Europa viene considerata da alcuni un «prodotto» con parecchi, troppi difetti e con un funzionamento complicato, scoraggiando ogni entusiasmo del cliente-elettore.

Al voto per l’Unione del 2019 l’affluenza in Italia è stata del 54 per cento, dieci punti in meno rispetto alle ultime politiche. Ed è possibile che lo stesso copione si ripeta anche l’8 e il 9 giugno di quest’anno, quando gli elettori saranno chiamati a rinnovare il Parlamento di Strasburgo e invece di concentrarsi sui temi europei, come al solito il dibattito sarà tutto nazionale. Eppure l’Europa è cruciale per il nostro futuro e in questo ventennio ha messo a segno importanti successi, dalla nascita della valuta comune fino all’avvio del Next Generation Eu, il fondo da 750 miliardi di euro approvato nel luglio del 2020 per sostenere gli Stati colpiti dal Covid-19. Ma oggi le sue scelte non piacciono più a una grossa fetta di cittadini e di imprese: dalla politica agricola che costa ben 390 miliardi alle decisioni sul packaging, che mettono in pericolo un’industria da oltre cinque miliardi di fatturato in Italia. La Commissione deve cambiare radicalmente passo e l’intera Unione va riformata. Viene sempre più percepita come qualcosa di freddo e lontano, una massa di burocrati ideologizzati che fa calare dall’alto le sue direttive, anche se nella realtà queste sono frutto del lavoro dei deputati e dei governi eletti dagli europei, italiani compresi. Le elezioni rappresentano un’occasione per voltare pagina.

Triple sedi, doppio consiglio e triloghi. Sono terrificanti le sfide che l’Unione dovrà affrontare nei prossimi anni, schiacciata tra Stati Uniti e Cina con ai confini un Putin sempre più aggressivo, una pressione migratoria che non si ferma, una popolazione che invecchia e che richiede più welfare, mentre si dovranno spendere più soldi per la difesa e l’industria e aprire le porte ai Paesi dei Balcani. Come ha ricordato di recente l’ex presidente della Bce ed ex premier Mario Draghi, l’Europa poteva contare «sull’energia russa, sulle esportazioni cinesi e sulla difesa degli Usa. Questi tre pilastri sono meno solidi di prima». La pacchia è finita e ora il Continente dovrà «investire una somma enorme in un tempo relativamente breve». Di fronte a passaggi così epocali i cittadini dovrebbero partecipare con passione alla politica europea. E agli elettori sicuramente piacerebbe un sistema istituzionale più semplice, magari potendo indicare un leader a cui affidare la guida dell’Unione, come fanno gli americani con il loro presidente. Invece non si può fare, e non si capisce neppure chi davvero comanda nel Vecchio continente: la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, o il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel? Oppure ancora Germania e Francia? Insomma, riprendendo una frase attribuita a Henry Kissinger, chi si deve chiamare se si vuol parlare con l’Europa?

Recep Tayyp Erdogan ha voluto mostrare con malizia queste ambiguità durante l’imbarazzante incontro ad Ankara del 6 aprile 2021, quando lasciò la presidente della Commissione senza sedia mentre i presidente turco si accomodava accanto a Michel. L’Unione presenta poi varie e costose bizzarrie, come le sedi multiple del Parlamento europeo: non una, non due ma ben tre, contando oltre a Strasburgo e Bruxelles anche Lussemburgo, dove c’è il segretariato generale dell’istituzione. O, per complicare le idee già confuse dei cittadini chiamati al voto, l’esistenza di due Consigli: uno è quello dell’Unione con sedi a Bruxelles e Lussemburgo, l’altro è quello europeo che sta nella capitale belga. Il consiglio dell’Unione è uno degli organi legislativi dell’Ue, è costituito dai ministri di tutti gli Stati membri, che si riuniscono per discutere e adottare decisioni in materia di politiche e normative. Il Consiglio europeo invece è formato dai 27 capi di Stato o di governo dei Paesi membri, che si riuniscono almeno quattro volte l’anno. Queste riunioni sono spesso chiamate «vertici europei». Il Consiglio definisce le principali priorità politiche e gli orientamenti dell’Unione e inoltre propone il presidente della Commissione. Il suo presidente è eletto ogni due anni e mezzo.

Le votazioni su temi importanti sono all’unanimità, che rappresenta a volte un grosso ostacolo: da qui la scena del leader ungherese Viktor Orbán che il 14 dicembre scorso ha lasciato la stanza per consentire il via libera ai negoziati di adesione dell’Ue con l’Ucraina e la Moldavia. Senza più pax americana. La nascita di una nuova norma in Europa è un parto complesso. Troppo. La Commissione presenta le proposte di legge al Parlamento e al Consiglio dell’Unione; il Parlamento esamina il testo e può emendare la proposta e inviarla alla commissione competente per ulteriori discussioni e modifiche; nel frattempo, anche il Consiglio dell’Unione esamina la proposta e può apportare modifiche al testo; per raggiungere un consenso, spesso si svolgono incontri informali noti come «triloghi», che coinvolgono rappresentanti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione; dopo le trattative e gli eventuali emendamenti, la proposta di legge viene sottoposta a votazione sia al Parlamento che al Consiglio ed entrambi devono approvarla a maggioranza; poi la norma viene inviata alla Commissione per la promulgazione formale e infine gli Stati devono adattare le loro legislazioni nazionali per conformarsi alla nuova legge europea, a volte con l’approvazione dei parlamenti nazionali.

Processi decisionali lunghissimi, mentre negli Stati Uniti o in Cina la politica si muove più rapidamente. L’Unione europea è uno Stato federale zoppo, un’organizzazione sovranazionale dove la volontà dei cittadini e gli interessi europei, espressi dal Parlamento e dalla Commissione, spesso di scontrano con il potere delle Nazioni. E a volte perdono. «Il sistema istituzionale europeo è stato pensato guardando a una serie di temi a carattere economico in un quadro geopolitico stabile dominato dalla globalizzazione e dalla pax americana» spiega Carlo Altomonte, professore associato in Economia dell’integrazione europea presso la Bocconi di Milano. «L’ultima riforma importante risale al 2000 con il trattato di Lisbona, che ha permesso all’Europa di essere uno dei protagonisti dei vent’anni successivi. Il punto chiave oggi è che le nuove sfide vanno a toccare ambiti di intervento come la sicurezza, l’immigrazione, la politica estera che influenzano e limitano la sovranità degli Stati nazionali. Su questo nuovo fronte l’Europa non è attrezzata, lavora ancora con un criterio intergovernativo, con le regole dell’unanimità, ed è poco efficiente nel decidere su questi temi. Per venirne fuori è evidente che da un lato occorrerebbe riformare i trattati ed estendere la regola della maggioranza qualificata anche a questi ambiti, ma non è una cosa che si riesce a fare a breve termine».

Pericolo deindustrializzazione. Parla di un quadro cristallizzato Luciano Monti, docente di Politiche dell’Unione europea presso l’Università Luiss di Roma: «Se oggi vuoi parlare con l’Europa devi chiamare Berlino o Parigi. Immaginare oggi una realtà politica come gli Stati Uniti ha poco senso perché non esiste ancora una concreta coesione economico-sociale tra i Paesi dell’Unione e un’accelerazione verso quella direzione è ancora più difficile se pensiamo al futuro ingresso dei Balcani. Siamo in una situazione cristallizzata in cui vince un modello intergovernativo, e capisco che per l’elettore sia complicato comprenderlo: chi comanda davvero è il Consiglio europeo e secondo me questo non si cambia né oggi né a medio termine stanti le forti differenze economico-sociali tra i Paesi dell’Unione». Differenze diventate palesi con la politica ambientale, che sembra costruita su misura dei Paesi nordici, dove i partiti verdi hanno un forte peso, i redditi sono più alti e le abitazioni sono ben diverse da quelle delle nazioni del sud Europa. E ora la Commissione è costretta a correggere il tiro.

Così come sono evidenti i ritardi in campo industriale: «Abbiamo politiche industriali nazionali, gestite con gli aiuti di Stato, poco coordinate tra di loro» sostiene ancora Altomonte. «L’ideale sarebbe incardinare queste politiche in un coordinamento europeo. La deindustrializzazione dell’Europa è un rischio concreto e la prossima Commissione avrà un ruolo costituente per il futuro delle politiche industriali». Questioni importanti, quelle economiche ed ecologiche, che però impallidiscono di fronte alle sfide geopolitiche: l’aggressività della Russia e il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca costringono l’Europa ad affacciarsi sull’abisso della guerra. L’Ue ha finora versato all’Ucraina di Volodymyr Zelensky oltre 85 miliardi di euro. La presidente della Bce, Christine Lagarde ha detto che vanno recuperati 75 miliardi di euro all’anno se si vuole raggiungere la soglia del 2 per cento di spese militari concordate in ambito Nato. Una Difesa che non può più aspettare. Thierry Breton, commissario responsabile della Difesa, ha proposto un fondo speciale da 100 miliardi di euro per riarmarsi ma come prevedibile l’Europa si è divisa anche su questo: il piano ha suscitato critiche da parte degli Stati membri, forse perché frenerebbe il lobbismo dei campioni industriali.

Secondo l’Istituto Jacques Delors di Parigi i Ventisette fabbricano 17 diversi modelli di carri armati (rispetto a uno solo negli Stati Uniti), 20 modelli di caccia (rispetto a sei), 29 modelli di fregate (rispetto a quattro). L’Europa della difesa è ben lontana dall’essere unita. «Invece di immaginare un’Unione che affronta tutti i problemi come fosse il governo federale di Washington» suggerisce Monti della Luiss, «tipo imporre la ristrutturazione green delle case senza rendersi conto delle peculiarità dei vari Stati, bisognerebbe provare a concentrarsi solo su alcuni temi, come abbiamo fatto con la pandemia e con la nascita del piano Next Generation Eu, che per la prima volta si è finanziato sul mercato. Dovremmo provare ad enucleare quali sono i beni comuni dell’Unione su cui vale davvero la pena puntare: la difesa, l’immigrazione, la competitività dei mercati, l’energia. L’elettore dunque dovrebbe vedere che cosa propongono i partiti su questi grandi “capitoli” condivisi e decidere di conseguenza a chi dare il voto». È probabilmente necessaria l’unificazione delle presidenze di Commissione e Consiglio europeo, per avere finalmente una figura di prestigio che guidi l’Unione. Toccherà al prossimo Parlamento gettare le basi per questa euro-rivoluzione.

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