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Sindacato da pensionare

Sindacato da pensionare

Una rappresentanza sempre meno incisiva, le tentazioni politiche, il mancato ricambio generazionale. Alla vigilia del 1° maggio, le organizzazioni dei lavoratori vivono la loro crisi più grave.


«Da parte del movimento sindacale c’è stata scarsa sensibilità intorno ai processi d’innovazione, di fronte alle ristrutturazioni e alle nuove tecnologie». Lucido e profetico al tempo stesso. Era il 1984 quando Luciano Lama – per 16 anni segretario generale della Cgil, il più longevo dei sindacalisti «rossi» – «dettava» queste sue considerazioni in un’intervista sul Partito comunista italiano. Il 1984 è lo stesso anno della scomparsa di Enrico Berlinguer che oggi Elly Schlein ha «resuscitato» nell’effige sulla tessera del Pd, come se la storia recente avesse fatto retromarcia. Lama aveva aperto la stagione dei «sacrifici» che sarebbe diventata con Carlo Azeglio Ciampi quella della concertazione e chiedeva al sindacato di evolvere. Lasciando la segreteria Cgil nell’86 preconizzò: «Bisogna cedere il passo alle nuove generazioni: anche perché se non glielo lasci, se lo prendono comunque».

L’Italia sindacale sembra fissata in questo fermo-immagine. Torna la necessità della concertazione di cui ragiona il segretario della Cisl Luigi Sbarra (si veda l’intervista a pag. 20); torna la suggestione berlingueriana della sinistra di lotta e di governo; torna un’idea di sindacato che guarda più al sociale che alla fabbrica nelle parole di Pierpaolo Bombardieri, numero uno della Uil, che il 20 aprile scorso è andato in piazza con la Cgil di Maurizio Landini, nostalgico dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma senza la Cisl che a guardare nello specchietto retrovisore non ci sta.

Sul punto dell’articolo di legge per il reintegro in caso di licenziamento e sul jobs act voluto dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi – allora nel Pd – la frattura nei sindacati è netta. Riguardo alle morti sul lavoro e al referendum promosso dalla Cgil, Sbarra ha scandito davanti a cinquemila delegati: «Sono indecenti e demagogiche le presunte lezioni che altri vorrebbero dare alla Cisl. La piaga dei morti non si combatte con gli scioperini, il referendum di Landini rialza una bandiera divisiva e anacronistica». È dunque la foto – ingiallita – di quarant’anni fa. L’unità sindacale, uno dei tormenti di Lama, non c’è, la difesa del salario è smentita dalle cifre. I lavoratori italiani guadagnano circa 3.700 euro l’anno in meno della media europea, e oltre ottomila euro in meno della media di quelli tedeschi. Per il Global Wage Report 2023 presentato dall’Ilo, organizzazione internazionale del lavoro, i salari italiani sono gli unici a essere diminuiti. Rispetto al 2008 sono più bassi in termini reali – cioè depurati dall’inflazione – del 12 per cento. Forse questo spiega, almeno in parte, perché una profezia di Lama non si sia avverata: i giovani hanno voltato le spalle al sindacato.

La stessa Fondazione Di Vittorio, organica alla Cgil, ha certificato che il 47 per cento di chi ha un impiego e ha meno di 35 anni non si iscrive ad associazioni del lavoro, anzi non le prende proprio in considerazione. Il motivo? Non sanno né cosa facciano né a che cosa servano. Da un’analisi fatta dall’Anaste, l’associazione dei consulenti del lavoro, emerge che su 63 contratti nazionali firmati da Cgil-Cisl-Uil, ce ne sono 22 («tutelano» oltre due milioni di iscritti) con paghe orarie di base inferiori ai 9 euro che si vorrebbero fissare con il salario minimo, e i dipendenti delle cooperative del settore socio-sanitario (ammontano a quasi 313 mila) ricevono 8,8 euro. E sì che Landini ha fatto della sanità un cavallo di battaglia…

Emblematica resta la vertenza dei riders, che recapitano il cibo a domicilio. La Cgil si è schierata contro il contratto che la Ugl – il sindacato cosiddetto di destra – aveva firmato con Assodelivery definendolo «pirata». Ha promosso cause che le hanno dato ragione. Il risultato però è che questi ciclofattorini – in larga maggioranza giovani – hanno trovato protezioni vere soltanto dalla magistratura. In Europa è stata approvata una direttiva sui cosiddetti lavoratori digitali, cioè che ricevono direttive attraverso piattaforme on line. Sono riconosciuti come dipendenti, ma la loro tutela è rimandata ai contratti nazionali che in Italia, d’altra parte come in gran parte del continente. Un caso che spiega come la confusione sia massima è quello del servizio Just Eat: non sapendo come inquadrare i riders, ne ha assunti circa un terzo come dipendenti, ma con deroghe alla contrattazione collettiva del commercio e ha fatto in modo che gli altri venissero presi in carico dai ristoranti con le più diverse mansioni. La direttiva europea sui ciclo-fattorini si potrebbe applicare a tutti i giovani che utilizzano l’intelligenza artificiale, a chi produce contenuti sul web, a chi svolge mansioni che hanno a che fare con il lavoro da remoto. È un mondo che la contrattazione collettiva per ora non ha intercettato, ma è il mondo in cui sono occupate le nuove generazioni.

La difficoltà del sindacato a interpretare le articolazioni professionali più avanzate è apparsa evidente quando si è trattato, in piena pandemia, di regolare lo smart working che – stando ai dati del Politecnico di Milano – ormai nel Paese interessa 3,6 milioni di lavoratori. Per il sindacato non è un lavoro differente, ma solo una diversa modalità e invece la realtà sembra essere un’altra. Il professor Mariano Corso, del Politecnico di Milano, nei suoi studi avvisa che il «remoto» è diventato un requisito fondamentale per le imprese che vogliono acquisire lavoro qualificato. Il rapporto Censis-Eudaim – da cui si ricava che il 52 per cento degli occupati non ritiene che l’impiego sia centrale nella propria vita – spiega che operare da remoto sia l’unica condizione che possa rendere attraente una proposta di assunzione. Vuole lavorare meno il 65,5 per cento dei giovani e il 66,9 per cento di chi supera i 50 anni. È un mondo, questo, che il sindacato fa fatica a interpretare con le rigidità della l’attuale contrattazione collettiva. Che non ha però messo al riparo i lavoratori da crisi crescenti. Sono ben 34 i tavoli aperti al ministero del Made in Italy, altre 23 situazioni sono sotto monitoraggio per oltre 183 mila posti a rischio. Vertenze come la storica Magneti Marelli di Crevalcore, nel Bolognese, si sono trascinate per anni e la soluzione è avvenuta con la cessione dell’azienda. La vertenza della Gkn di Firenze, per citare un esempio, si è risolta con il ritiro sì dei licenziamenti però trasformati in esodi incentivati.

Il sindacato sembra anche in affanno su fronti come quello di Stellantis – è ripresa la cassa integrazione per 2.200 unità a Mirafiori – e dell’indotto automotive. L’erosione di posti di lavoro nel gruppo dell’automotive dal 2021 quando il gruppo si è costituito è stata costante. I metalmeccanici, che si apprestano a un rinnovo contrattuale difficilissimo (hanno chiesto 280 euro di aumento e le industrie hanno già detto di no) non sono stati in grado di contrastarla: si è passati da 51.300 dipendenti agli attuali 42.700. Intanto il ceo di Stellantis Carlos Tavares incassa stipendi e bonus per 36 milioni di euro. Su altre imponenti vertenze lo spazio di Cgil, Uil e Cisl è stato ridottissimo; sulla compagnia aerea Ita, sull’ex Ilva: oltre 10 mila posti bruciati. Questo produce un’emorragia di iscritti. I sindacati ne hanno persi 850 mila in dieci anni. La Cgil ormai è per metà sorretta dai pensionati. Sono 2,5 milioni gli scritti allo Spi-Cgil su un complesso dichiarato di 5,1 milioni di associati. E certo l’attività dei patronati aiuta a reclutare tra chi ormai ha appeso la tuta al chiodo. Cyprien Batut, Usysse Lojkine e Paolo Santini, per la Copenaghen Business School, hanno condotto una ricerca sulla base sindacale: a fronte di un 32 per cento di lavoratori con tutele dichiarate dalle tre centrali, emerge che in realtà non si va oltre un reale 22 per cento di iscritti. Tito Boeri da presidente dell’Inps tentò una stima oggettiva, ma c’è sempre stata una certa ritrosia dei sindacati. L’ultimo dato dell’istituto previdenziale risale a 10 anni fa: nelle aziende aderenti a Confindustria solo una persona su quattro era iscritta a Cgil, Cisl o Uil.

Proprio la Uil ha vantato per quest’anno un’inversione di tendenza: un aumento di circa l’1 per cento arrivando a 2 milioni e 341 mila iscritti. Il segretario generale Bombardieri ha così aperto a una legge sulla rappresentanza mai varata perché divide i sindacati. Pietro Ichino, giuslavorista già deputato del Pci e poi del Pd, rimprovera loro di non aver cambiato ruolo: «Bisognerebbe che si occupassero in modo organico degli interessi delle persone nel mercato del lavoro, e non solo del loro interesse in azienda, nell’ambito di un rapporto occupazionale già costituito». Questo in parte spiega perché, mentre il tasso di impiego è in aumento, diminuisce la sindacalizzazione e le relative organizzazioni appaiono come un sindacato di pensionati o «da pensione». Su circa 11 milioni di iscritti i pensionati sono 4,8 milioni, pari al 43,6 per cento. E questo a fronte di una platea di lavoratori che si è allargata nel 2024 a quasi 24 milioni di persone con un record di occupazione – certifica l’Istat – pari al 61,8 per cento.

Una ricerca della Cgia di Mestre offre due dati che dovrebbero preoccupare chi vuol rappresentare a vario titolo chi è nel mondo del lavoro: sono tornate a crescere le partite Iva, che sono un po’ più di cinque milioni. Inoltre, «entro i prossimi 10 anni, la platea delle persone in età lavorativa (15-64 anni) in Italia è destinata a ridursi di tre milioni di unità (-8,1 per cento)». Un grosso problema per il futuro del Paese e per il patto generazionale sulla previdenza. E se va così, al sindacato toccherà di andare in pensione.

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