Mentre il presidente «olimpico» Macron prende tempo per risolvere i rebus politici, i problemi economici della Francia si moltiplicano. Tra errori nelle previsioni, tagli sicuri e tensioni sociali in crescita.
Avenay è un piccolo villaggio del nord della Francia, alle porte di Caen, in Normandia. C’è un municipio aperto quattro ore a settimana, qualche piccola impresa, qualche artigiano. Uno di quei posti in cui non succede nulla e anche le elezioni alla fine sono un evento. Alle ultime legislative, tra fine giugno e inizio luglio, hanno votato in 300, più o meno. In testa, al primo turno, il candidato della sinistra unita, Gauchard. Nomen omen, in italiano si traduce più o meno «sinistrorso». Però nel complesso della circoscrizione, la sesta del Calvados, arrivava primo il candidato del Rassemblement National e seconda l’odiata Elizabeth Borne, ex primo ministro, quella della riforma delle pensioni approvata a colpi dell’articolo 49.3 della Costituzione, che somiglia un po’ alla «fiducia» in Italia. Al secondo turno, per fare «barrage» alla destra, Gauchard s’è ritirato. Sicché anche nella piccola Avenay gli elettori, che avevano premiato la sinistra, hanno dovuto trangugiare l’amaro calice: votare Borne per non lasciar spazio all’estrema destra. Non tutti, in realtà: «Non me la sono sentita, al secondo turno ho votato scheda bianca», confessa un elettore di sinistra a Panorama. «Ricevere lezioni di democrazia da una persona che ha imposto la riforma contro il parere della maggioranza della popolazione e contro il Parlamento…». Altri però l’hanno votata e lei è stata rieletta. Con i voti della sinistra. E adesso ? «La Francia è divisa e loro sono ancora tutti fermi ai giochetti politici, ma la situazione è seria».
È in villaggi come questo che nasceva nel 2018 la protesta dei gilet gialli contro una politica lontana da popolo e territori. Non è cambiato molto, a sentire Françoise Paris, sindaco di Avenay: «Noi siamo in prima linea, l’amministrazione centrale è molto, molto lontana». «Vale per tutti i piccoli comuni rurali: negli ultimi anni la situazione si è aggravata, riceviamo sempre meno fondi dal governo». «Dal prossimo mi aspetto che ci aiutino finalmente a portare avanti i nostri progetti». Alle spalle del villaggio è aperta campagna: silenziosa come sempre, e come sempre pronta ad animarsi d’improvviso. Nell’inverno scorso gli agricoltori francesi protestavano: burocrazia, regole ambientali spesso assurde e non imposte ai prodotti d’importazione, tassazione del gasolio… Le ragioni erano tante e le soluzioni poche, ma qualche promessa era stata fatta. Non costava neanche troppo, quel che era stato promesso: 400 milioni di euro, più o meno quanto le ultime elezioni anticipate, un conto peraltro pagato in buona parte dalle amministrazioni locali. Poi però non s’è visto granché.
Ora Macron ha sciolto l’Assemblea nazionale, il governo c’è ma non c’è. «Siamo nella nebbia più totale», dice il leader di un’associazione: «Non sappiamo nemmeno contro chi potremmo protestare!». Già: contro chi? Il presidente forse nominerà un nuovo governo dopo le Olimpiadi, spera che nel frattempo si formi una coalizione centrista; l’estrema destra guarda e aspetta, già proiettata alle presidenziali del 2027; la sinistra fa ancora mostra di unità e propone un nome: Lucie Castets, 37 anni, nessuna tessera di partito ma decisamente allineata al programma del Nouveau Front Populaire, la sigla unitaria delle sinistre. Vittoriose per seggi ma non per voti, comunque lontanissime dalla maggioranza assoluta, la Gauche rivendica che le venga conferito il mandato di governo. Contano poi di cercarsi una maggioranza caso per caso, sui singoli provvedimenti.
Madame Castets, sconosciuta anche ai francesi fino a pochi giorni fa, è la responsabile finanziaria del comune di Parigi, le cui casse fanno acqua da tempo: quasi dieci miliardi di debiti, non tutti ascrivibili all’amministrazione attuale ma pur sempre raddoppiati nell’ultimo decennio. A livello nazionale il debito pubblico è esploso, superando i 3 mila miliardi, cioè più di 56 mila euro per abitante, quarto debito mondiale da questo punto di vista. Resta molto inferiore a quello giapponese, che però è di fatto interno. Quello francese no: è detenuto in gran parte da investitori esteri. Pari al 110,6 per cento del Pil a fine 2023, il debito della République è ancora considerato affidabile, per le agenzie di rating. Nonostante il declassamento annunciato da Standard & Poor’s nell’aprile scorso.
Tuttavia le nubi si addensa all’orizzonte, con la crescita del Pil prevista al ribasso per il 2024 (da +1,4 per cento a +1) e un guaio immediato: il deficit al 5,5 per cento per il 2023. Non è solo assai superiore al 3 per cento dei parametri Ue (motivo per cui la Commissione ha avviato una procedura d’infrazione): è, soprattutto, parecchio superiore alle valutazioni del governo, che si fermavano al 4,9 per cento. Conti sballati che costringono a misure correttive immediate. Per valutare la situazione bisognerebbe considerare anche il debito privato, sempre molto alto in Francia. Solo per le imprese (considerando anche i debiti tra aziende) si parla del 162 per cento del Pil. In sé non è un dato sconvolgente, se si tratta di investimenti: ma secondo un recente rapporto dell’osservatorio BPCE sono in sensibile aumento i crediti per tesoreria, mentre continuano a calare quelli per investimento. Cioè, sempre più imprese hanno le casse vuote. I fallimenti negli ultimi dodici mesi sono stati quasi 63 mila, in crescita del 21 per cento rispetto al 2019, ultimo anno pre-pandemico. Solo nel secondo trimestre 2024 altri 16.400 fallimenti…
Per quest’anno sarebbero a rischio più di 260 mila posti di lavoro. Sono segnali che sembrerebbero dar ragione a Charles Gave, economista ritenuto vicino alla destra: da tempo dice che, in questa fase, politiche di stimolo come le defiscalizzazioni volute da Macron non servono a nulla, quando non producono effetti nefasti, perché la Francia è in piena «trappola del debito». Questo lo dice anche la sinistra, che però propone di rilanciare il consumo interno aumentando gli stipendi, a partire dai più bassi. Lo Smic, il salario minimo, dovrebbe essere portato a 1.600 euro dai 1.400 attuali. «So bene che questo potrebbe mettere in ginocchio molte piccole imprese», ha ammesso recentemente Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise (la parte maggioritaria della coalizione delle sinistre). La soluzione? «Creeremo un fondo di perequazione».
Per finanziarlo verrebbero tagliate alcune agevolazioni fiscali alle grandi imprese, che sono poi quelle che assumono e avrebbero quindi un impatto molto più forte dalla crescita dello Smic: stipendio minimo più alto e in più una maggior tassazione. Oltretutto, avendo griglie salariali più articolate, si finirebbe per dover alzare anche le retribuzioni almeno nelle zone limitrofe allo Smic. Il problema però è anche che già oggi le aziende d’Oltralpe investono poco in ricerca e sviluppo: il 2 per cento del Pil, contro il 3,5 per cento negli Stati Uniti. Sono impieghi di risorse essenziali alla crescita della produttività, senza cui difficilmente si possono aumentare gli stipendi e quindi il potere d’acquisto e i consumi. Un serpente che si morde la coda.
Poi c’è la prevista cancellazione della riforma delle pensioni, che secondo stime più prudenti costerebbe allo Stato circa 35 miliardi di euro l’anno. Lucie Castets, in linea con Mélenchon, ha già detto che per finanziare le politiche promesse dalla sinistra vuol recuperare 150 miliardi di «entrate supplementari», cioè nuove tasse, anche se dice che colpiranno «i ricchi». E le imprese, a partire da quelle dell’indice di borsa Cac40, tra cui la franco-italiana Stellantis, che macinano profitti. Il fatto però è che la Francia si trova a dover scegliere non tanto un governo, quanto la via per ripianare i conti già messi a soqquadro del ministro dell’Economia Bruno Le Maire, fra tagli di spesa, nuove tasse e idee più o meno aggressive nei confronti del risparmio privato. Neanche le «Macroniadi», i Giochi olimpici voluti dal presidente aiutano più di tanto: tra parigini in fuga dal caos e turisti che hanno rinviato il loro viaggio nella Ville Lumière per ora si registrano soprattutto perdite. La Corte dei conti rassicura che entro il 2035 les Jeux avranno reso nove miliardi di euro, ma per ora le spese faraoniche per l’evento e l’ostentazione di grandeur della cerimonia iniziale stridono con le casse desolatamente vuote dello Stato.