Dalla stima per Deng Xiaoping («il più grande statista della storia») ai discorsi per l’Avvocato fino alla guerra su Telecom. Uno dei manager più potenti del Paese si racconta a Panorama. E ne ha per molti…
Dottor Bernabè, leggendo la sua autobiografia, le guerre puniche della chimica, l’infinita lotta tra pubblico e privato, sembrano una follia irripetibile.
È una storia di matti, non c’è dubbio. Ma è anche la maledizione di questo Paese. E l’ho scritta perché, purtroppo, è anche molto attuale.
Perché? Ormai di quegli imperi – delle battaglie per il controllo di Enimont – restano solo le vestigia.
Quella storia non è mai finita. Anzi: non è cambiato nulla.
Si riferisce a oggi?
La politica pretendeva di controllare il mercato, il privato di sfruttare risorse pubbliche per i propri interessi. Alla fine, come scopriremo tra breve, tutti cercavano di imporsi e nessuno riusciva a decidere, bloccato dai reciproci veti.
E ora?
Cambiano gli attori, i temi, ma il nodo è sempre quello. Rivedo il rischio che prevalgano le stesse ossessioni ideologiche. Si pensi alla saga di Alitalia. O l’incredibile vicenda Autostrade.
Anche adesso il futuro è incerto.
Quanto ci costa una compagnia di bandiera? Chi la gestirà e in nome di quale interesse? Mistero.
Perché accade?
Siamo un Paese in cui, ancora oggi, non ci sono regole chiare nel rapporto tra interesse pubblico e privato.
E poi?
Il mercato continua a essere turbato dai capricci dei governi.
Ci sono mai stati confini chiari?
Negli anni Trenta – per dire – quando Alberto Beneduce creava l’architettura del sistema pubblico e del privato le regole c’erano, eccome, e molto precise.
Quali?
Nelle aziende statali non c’erano interferenze della politica. I grandi dirigenti delle partecipate erano «tecnici», molto preparati e autonomi.
La degenerazione della «Repubblica dei partiti» – per citare Pietro Scoppola – ha infranto questo incanto.
La prima catastrofe: i cda lottizzati. Quei rappresentanti non pensavano più all’azienda ma si comportavano come curatori di interessi particolari.
Lei racconta un aneddoto incredibile sulla commissione per le Partecipazioni statali.
Tutto vero, l’ho visto con i miei occhi, quando ero all’Eni. In commissione venivamo torchiati sui piani industriali alla ricerca degli interessi da difendere.
E poi?
Poi accadeva uno spettacolo che ancora adesso mi sembra indecente. Un po’ ti ricattavano, un po’ ti blandivano, alla fine ti riempivano le tasche di bigliettini.
Cos’erano?
Segnalazioni. Raccomandazioni. Liste dei nomi e di clientes da collocare.
La straordinaria immagine dell’Eni di oggi stride con il ritratto che lei ne fa nella sua autobiografia, quando nel 1983 entra nel palazzo dell’Eur.
Era una periodo di decadenza ed entropia.
Cioè?
Le consociate facevano il bello e il cattivo tempo, come delle città Stato. La sede nazionale era il più costoso comitato di rappresentanza romano mai visto.
Lei racconta la sua battaglia per ripristinare il controllo del vertice, e un aneddoto cult su Berlusconi.
Eh, il Cavaliere… Il centrodestra aveva vinto e quasi tutti i suoi esponenti chiedevano la mia testa di a.d.
Ma lei non mollava.
Dissi: «Se volete che me ne vada dovete andare nel cda e sfiduciarmi».
Pretendeva un’assunzione di responsabilità che per loro era rischiosa.
Esatto. Soprattutto di fronte agli azionisti. Comunque, in questo clima, e con An molto agguerrita, incontrai Berlusconi a Palazzo Chigi. All’inizio freddo, brusco: «Guardi Bernabè, c’è solo un modo per risolvere questa vicenda senza problemi».
Quale?
«Lei» dice Berlusconi accigliato «assume Tizio, Caio e Sempronio in due o tre posti cruciali, e vedrà che tutto si risolve».
Praticamente le stava dicendo: o fa così o salta.
Ebbi un riflesso feroce e gli dissi: «Ma scusi, lei questi personaggi li assumerebbe a Mediaset?». Silenzio. Colsi un lampo nei suoi occhi.
E…
Non mi trattenni più, giocai all’attacco: «No! Lei non darebbe mai, a nessuno di loro, uno stipendio nella sua azienda. E non lo farò nemmeno io».
Ah ah ah… E che successe?
Non era abituato che qualcuno gli dicesse di no, ed era colpito in modo positivo. Cambiò atteggiamento. Mi prese sottobraccio, mi trattò con confidenza inimmaginabile fino a un attimo prima.
Per esempio?
Mi accompagnò alla macchina. Mi disse: «Non si preoccupi», mi aprì addirittura lo sportello. Devo ammettere che da lui non ebbi più nessun problema.
Franco Bernabè, 71 anni, uno dei manager più famosi e potenti d’Italia, ha scritto la sua storia per Feltrinelli (A conti fatti, Feltrinelli, pp. 368, 17 euro). Un libro che inizia come un romanzo di formazione ottocentesco e che finisce come una serie di Netflix, fra intrighi, lotte di potere, colpi di scena. Gli anni Cinquanta di un ragazzo di estrazione umile, i Sessanta alla Fiat, gli Ottanta all’Eni, i Duemila a Telecom. Sembra (ed è) una autobiografia, ma è (anche) una storia delle classi dirigenti, piena di ritratti sapidi (da Renato Mieli a Enrico Cuccia, dagli scontri con Massimo D’Alema, al sodalizio con Franco Reviglio).
Lei viene da una famiglia povera. Però a 14 anni parla tre lingue.
Arrivai a Torino nel 1959 ma ero cresciuto a Innsbruck: parlavo tedesco, italiano e francese.
Una famiglia molto particolare la sua.
Avevo due nonni. Il primo, un vecchio socialista, mi raccontava con orgoglio di quando partiva da Mariano Comense a Milano, a piedi, per ascoltare Turati.
A piedi?
Si alzava alle tre, e diceva che erano i giorni più belli della sua vita.
L’altro?
Austro-ungarico. Aveva combattuto la Prima guerra mondiale da suddito di Francesco Giuseppe: era stato mandato fra Ucraina e Polonia e lì aveva perso un braccio.
E suo padre?
Ferroviere a Innsbruck: chiese il trasferimento per tornare in Italia. L’arrivo a Torino è un trauma. Innsbruck era pulita, curata, semplice. Torino ci parve caotica, umida, piovosa, disordinata.
La sua famiglia si svena per pagarle le migliori scuole, al liceo Valsalice. Ma la svolta della sua vita fu un viaggio in America.
Un mio compagno mi raccontò di una borsa di studio dell’American Field Service che forniva vitto e alloggio. È l’autunno 1965, ma serve la conoscenza dell’inglese… Ero certo che sarei stato bocciato. Tuttavia la commissione, entusiasta del mio colloquio, mi diede tempo fino ad agosto per imparare la lingua. Arrivo in America, all’alba. Tutti svegli in attesa di vedere la Statua della libertà.
Lei viene spedito in Oregon.
In una famiglia dove il padre faceva un mestiere che da noi non esisteva: amministratore di grattacieli. I miei non avevano né macchina, né tv, né telefono.
E lei trova tutto questo. Auto di lusso, elettrodomestici.
Il figlio primogenito, Jim, aveva decine e decine di camicie, cosa che per me era sconvolgente, e una decappottabile sua.
Scopre l’inglese e l’informatica.
Studiai il Basic, linguaggio di programmazione, e frequentai anche un corso di public speaking che mi è servito per tutta la vita.
Ma il ritorno in Italia è una doccia fredda.
Ero fuori dai canoni, persi un anno: il liceo non riconosceva i miei studi. I miei spesero tutti i loro risparmi per portarmi al diploma.
Fame di riscatto?
Era lo spirito del tempo. Tutte le famiglie volevano il figlio laureato, il Sessantotto si avvicinava.
L’ascensore sociale.
(Altro sorriso). Curioso, no? Allora i genitori picchiavano i figli se non studiavano. Ora invece menano i professori se li fanno studiare.
L’inglese imparato la trasforma in un esperto di Paesi dell’Est.
Ho fatto una scelta di marketing: potevo leggere migliaia di documenti e tesi che in Italia non capiva nessuno. Scrivevo articoli per La Stampa.
Incontra un maestro.
Renato Mieli, padre di Paolo: una personalità straordinaria. Il «capitano Merril» dei servizi inglesi, ma anche un quadro togliattiano: uscito dal Pci nel 1956 aveva fondato il Ceses, uno dei migliori pensatoi del dopoguerra. Fu una grandissima palestra, frequentata dalle migliori intelligenze liberali. Confindustria la finanziava, sperando nella formazione di una generazione di anticomunisti.
Lei non incontrò mai Paolo, il figlio.
Mai. Ho un aneddoto illuminante su padri e figli, perché un giorno Renato mi disse: «Sono molto preoccupato per Paolo».
Perché?
«Frequenta Potere Operaio. Fa casino, non si è mai fatto vedere al Ceses. Cosa combinerà nella vita?». Detto di uno che è diventato direttore de La Stampa e due volte il Corriere della sera non è male.
Diventa esperto di un mondo oggi scomparso: il Comecon.
Ho iniziato a conoscere allora Cina e Urss. Quell’economia è sparita.
Ma quelle classi dirigenti sono rimaste.
Dopo quasi tre anni dalla prima proposta, per volontà di Antonio Mosconi, d.g. della programmazione strategica.
Lo aveva conosciuto a Vienna.
Era romano, come Cesare Romiti e Paolo Mattioli. Tre romani che prendono in mano il Lingotto in un periodo difficile e lo rilanciano.
Diventa il ghost writer dell’avvocato Agnelli.
(Ride). Non il solo.
Fa il modesto?
Non lo sono. Ho fatto l’ideologo.
Ma come funzionava?
Agnelli mi chiamava nel suo ufficio all’ottavo piano. Mi spiegava come vedeva la frase, cesellava delle battute di cui era molto orgoglioso.
Per esempio?
Frasi tipo: «De Mita, l’intellettuale della Magna Grecia». Le testava e poi ci costruivamo un discorso intorno.
Ha scritto anche per Romiti.
Per esempio un discorso in cui lui attaccava Berlinguer sull’occupazione della fabbrica nel 1980. Mi disse: «Bernabè, intinga la penna nel veleno».
Lei ricorda di lui: «Vinse quella battaglia da solo».
Anche gli Agnelli, preoccupati, stavano cedendo. Andò fino in fondo, non cedette un millimetro. Vinse per questo.
Alla Fiat finisce con l’amaro in bocca.
Un giorno Enrico Auteri mi dice: «Lei è un buono. Troppo buono per avere incarichi operativi». Per queste parole decisi di andarmene.
È la sua fortuna.
Entro in Eni, divento assistente di un mio ex maestro, il professor Franco Reviglio.
Allora perdevate centinaia di miliardi. E lei scala la piramide fino a diventare a.d.
Ci sono voluti dieci anni per trasformare quel carrozzone in una macchina da utili pazzeschi.
Pazzeschi?
Lo Stato in quattro tranche arrivò a recuperare 44 miliardi.
Sempre in guerra con Necci, «Lorenzo il magnifico», Gianni De Michelis, ministro onnipotente, e Raul Gardini, scalatore rapace.
Ero incosciente.
Ma chi la proteggeva?
Nessuno, ero un solitario.
Non faccia il «Candide».
Non lo ero. E combattevo, mi creda.
Episodio cinematografico: cena a casa Gardini per celebrare la fusione Enimont, a cui lei si oppone, con Necci che regala a Gardini e Carlo Sama delle cazzuole d’argento para-massoniche.
So che non mi crede, ma ci sono anche delle foto.
Lei dice che in azienda c’era una cupola massonica.
Ci ho combattuto.
Fa un ritratto anti-buonista di Gardini.
Si vantava di non aver letto un libro. Diceva di Sama: «Conosce la cultura americana perché guarda i film di cowboy».
Sono stati padroni d’Italia.
Erano tigri di carta. Necci inseguiva colpi mirabili perché non voleva pensare operazioni sulla struttura industriale.
Arriva a Telecom, una prima volta, e viene spodestato poco dopo dai «capitani coraggiosi».
(Sorriso). Non erano né capitani, né coraggiosi.
Lei litiga con D’Alema su questo.
Favorì questa scalata perché sentiva che diventava simbolicamente l’accettazione del mercato da parte degli ex comunisti.
Lei pronuncia un temerario discorso di sfida che circolò su dvd in azienda.
Tutto quello che avevo previsto sui conti dell’azienda, purtroppo, si realizzò.
Racconti il faccia a faccia con il suo antagonista.
Roberto Colaninno? Non ci siamo mai visti né parlati. Lui arrivò, io me ne andai. Lui se ne andò, io tornai.
Cosa s’impara dalla vicenda Telecom?
La sintesi? Viviamo in un Paese di gente senza palle che troppo spesso vive a rimorchio di chi fa favori.
L’arrivo di Colaninno è il momento più duro della sua carriera.
Ero stato sconfitto, ma li avevo costretti a migliorare l’offerta dell’Opa.
Maranghi non è stato tenero con lei.
Mi disse sprezzante: «Farai bene a emigrare. Non ti darà più un lavoro nessuno».
Invece fonda con Renato Soru una società che poi è diventata Tre.
Mi sono divertito moltissimo. E abbiamo anche guadagnato molto.
Lei di Vipiteno, lui di Sanluri: un asse fra chiacchieroni.
Soru era arrivato, con Tiscali, a valere come Fiat. Io gli dicevo: «Vendi! Vendi! Vendi!»
Non lo ha fatto.
Ha perso miliardi. È il tipico imprenditore italiano che vuole a tutti i costi restare attaccato alla sua azienda. Gli fa onore.
È vero che lei in privato esalta Deng Xiaoping?
Lo considero il più grande statista nella storia dell’umanità.
Una frase iperbolica per un manager prudente come un gatto.
Ha preso la Cina a pezzi, dopo la rivoluzione culturale, ha inventato uno slogan epocale e pragmatico – «Attraversare il fiume saggiando le pietre sotto i piedi» – e l’ha resa una potenza che sfida l’America. Le pare poco? Lo avessimo, un piccolo Deng.
Un pragmatico?
Sì! Tutta la discussione sul Mes è allucinante. È stato negoziato? Prendilo!
Malgrado gli statuti non siano cambiati.
Ecco l’ideologia. L’Italia soldi non ne ha. E sta ancora peggio dopo il Covid. Ci sentiamo ricchi, ma abbiamo le pezze al culo.
Il debito.
Ogni mese cerchiamo 35 miliardi di euro sul mercato, 400 l’anno. Nel sistema dell’euro è così.
Lo dice perché vuole uscire?
Ma figurarsi. Per stampare moneta, come vorrebbero Borghi e Bagnai, dovremmo bloccare la libertà di movimento dei capitali. Siamo pronti a farlo?
Lei pensa di no.
Torneremmo ai tempi in cui se andavi all’estero con il libretto degli assegni ti mettevano in prigione. Se lo ricorda?
No, non lo ricordavo.
Ne ho conosciuti tanti che hanno fatto questa fine.
Quindi?
Se non vogliamo finire così, bisogna che anche l’Italia impari a camminare sulle pietre del ruscello.