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La corona più scomoda

Non c’è «luna di miele» per la vincitrice delle urne. Giorgia Meloni si trova subito ad affrontare il rebus del governo da costruire con gli alleati. Intanto gli avversari elettorali già pronosticano una vita difficile (e breve) per l’esecutivo che ancora deve nascere, con tanto di manifestazioni di piazza in arrivo. La protagonista della politica italiana ha una sola via, che passa per la concretezza. E la resistenza.


«Vuole la guerra civile?». Ai piani altissimi di Fratelli d’Italia temono che la minaccia di Giuseppe Conte non sia solo una guasconata da Masaniello del Sud. Il ringalluzzito capo dei Cinque stelle ha chiarito: se Giorgia Meloni toglie il reddito di cittadinanza, finisce male. L’autunno s’annuncia tribolato: inflazione, bollette, recessione. «Governare è la cosa più bella, ma questo è il momento più sbagliato…» si lascia sfuggire uno dei colonnelli. A meno di clamorosi ribaltoni, la leader sarà nominata premier. Ma è una corona già piena di spine.

La galassia del centro sinistra, dopo anni di forzato torpore, scalpita. L’onta della leggendaria batosta alle elezioni va prontamente lavata. E nelle stesse piazze che suoleva riempire Giorgia. Quale migliore occasione per rialzare finalmente la testa? Sindacati, capopopolo, partiti, girotondi, arcobaleni, femen, giornaloni. La sinistra più partigiana si è ridestata e ha trovato l’invasor. Quei trogloditi degli ex missini potrebbero guidare il Paese. Ribellarsi è un dovere morale. L’«onda nera» rischia di travolgere l’Italia.

L’8 ottobre la Cgil aprirà le danze antagoniste con una manifestazione nazionale a Roma, in Piazza del Popolo. Data non casuale. È l’anniversario dell’attacco degli estremisti di destra alla sede capitolina della confederazione. «Ascoltate il lavoro» è il nobile titolo dell’iniziativa. Vista la ricorrenza, si trasformerà nella protesta contro i fascisti immaginari al potere. In quei giorni infatti Meloni potrebbe apprestarsi a varcare la soglia di Palazzo Chigi.

Insomma, saranno le prove generali di un copione che rischia di ripetersi: l’emergenza economica, per cui il futuro governo non può aver colpe, diventa il pretesto perfetto per sobillare l’ovvio malcontento. Intanto, cominciano le «okkupazioni». Al glorioso liceo Manzoni di Milano hanno organizzato picchetti e assemblee: «Siamo in una fase politica pericolosa e repressiva» aizzano i collettivi. Pure al Virgilio di Roma c’è stata una manifestazione contro il fascismo assieme al professor Paolo Di Paolo, indomabile romanziere de sinistra.

Anche nelle università altri intellettuali con le giacche di velluto a coste sono in allerta. All’Orientale di Napoli hanno appeso uno striscione che rievoca l’attualissima Bella Ciao: «Una mattina, mi son svegliato…». E le attiviste di «Non una di meno» sono già scese in piazza, con cortei in tutt’Italia. Altro che Dio, patria e famiglia. Loro si sgolano per l’aborto libero e i diritti delle donne. Prerogative che, in verità, l’insolentita Giorgia non ha mai pensato di intaccare. Ma tant’è. Poi i centri sociali, i girotondi, i politici. Il più temibile, soprattutto al Sud, potrebbe essere proprio Conte. L’ex premier s’è trasformato nel ribaldo Giuseppón, emulo del leader della sinistra francese, Jean-Luc Mélenchon. Vuole diventare, visto sfacelo del Pd, il capo carismatico dell’opposizione. Coltiva ottimi rapporti con il segretario della Cgil, Maurizio Landini. E non esclude la riedizione del patto giallorosso. Nel Pd, in vista del congresso di primavera, è partita la corsa alla successione di Enrico Letta.Tra le più scalpitanti c’è Elly Schlein, 37enne vice presidente dell’Emilia-Romagna: arcobaleno, ideologica, massimalista, già calata nella redditizia parte dell’anti-Meloni. «Sono una donna, amo un’altra donna, non sono una madre, ma non per questo sono meno donna» dice facendo il verso al noto slogan «Io sono Giorgia». Perfino il capo del terzo polo, Carlo Calenda, è in assetto: «Se Meloni farà imboccare all’Italia la strada di una democrazia non liberale, che non tutela più i diritti, ci sarà una mobilitazione fortissima da parte di tutto il Paese». E quali sarebbero le avvisaglie di questo strisciante regime? Mistero. Il novello Che Guevara dei Parioli comunque vaticina: «Il governo durerà al massimo sei mesi».

«Sarà il solito film…» conclude il navigato meloniano, presenza fissa del toto ministri. Lavoro, crisi, energia. Tutto può diventare l’appiglio perfetto per esacerbare. C’è un precedente storico che impensierisce: il primo esecutivo guidato da Silvio Berlusconi nel 1994. Anche allora simboleggiava il nuovismo: la speranza del cambiamento per i sostenitori, ma il nemico da abbattere per gli sconfitti. Durò otto mesi. L’esecutivo fu travolto dalla guerra con la magistratura e le contestazioni sulla riforma delle pensioni. L’avviso di garanzia recapitato al Cavaliere innescò la miccia. Ma a far esplodere la maggioranza fu poi l’alleato leghista, Umberto Bossi. Corsi e ricorsi? Stavolta, a guidare il Carroccio c’è uno scornatissimo Matteo Salvini. Quello stentato 9 per cento, racimolato alle ultime elezioni, resta un oltraggio.

Anche il Senatùr, in quel lontanissimo autunno 1994, mal sopportava la cavalcata di Forza Italia. Il Capitano potrebbe ripercorrere i suoi fragorosi passi? Sogna il Viminale, da cui toccò l’apice: il 34 per cento delle Europee. Era il maggio 2019. Rifare il ministro dell’Interno, immagina il leghista, potrebbe essere l’inizio della riscossa, tra battaglie navali e tweet incandescenti. «Ecco, il problema è questo…» ragiona uno degli uomini più ascoltati dalla premier in pectore. «Su sicurezza, legalità e sbarchi ci giochiamo tutto, specie con la situazione economica attuale. E i nostri, se sbagliamo, non ce lo perdonerebbero». Per non parlare delle piazze, appunto. Da gestire con fermezza e arguzia. Esattamente il contrario di quello che ha fatto la ministra uscente, Luciana Lamorgese.

Insomma, Giorgia e i suoi temono controproducenti smargiassate dell’alleato. «Al primo scivolone ci troveremmo i cortei contro il governo fascista». Meglio allora un rassicurante tecnico, «sobrio e competente». Uno come l’ex prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, candidato non eletto di Fratelli d’Italia. O il suo successore, Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto di Salvini al Viminale. L’animo umano è insondabile. Soprattutto quello di un leader che si sente accerchiato. La guerra di successione nel Carroccio potrebbe complicare ulteriormente le cose.

Così come la stima di Meloni per Giancarlo Giorgetti: il moderato considerato emblema del fallimentare appoggio al governo Draghi potrebbe essere confermato ministro. I colonnelli leghisti minimizzano: «Sciocchezze. Matteo non romperà. Anche perché non gli conviene…». A dispetto della magra percentuale alle urne, grazie alle concessioni dell’alleata e al bislacco sistema elettorale, le truppe leghiste restano nutrite. La magnanimità però può diventare controproducente. La maggioranza al Senato è solida, ma non granitica. E senza Carroccio, addio governo. Come fece Bossi nel 1994, appunto.

E il Cavaliere, l’altro protagonista di quei ruggenti anni? Forza Italia, nonostante le magre aspettative, ha retto: 8 per cento, qualche decimale meno della Lega. Berlusconi annuncia di voler far da garante con le guardinghe istituzioni europee. Anche perché la supposta comunanza con il premier ungherese, Victor Orbán, è un’ossessione della propaganda avversa, sebbene sia superata dallo sperticato atlantismo e il fermo appoggio all’Ucraina.

In Europa, comunque, lo scenario potrebbe essere meno fosco di quello tratteggiato da stampa e opposizione. La leader di Fratelli d’Italia, due anni fa, è stata eletta presidente dei conservatori europei. Del gruppo fa parte pure il Pìs, partito del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e l’Ods di Petr Fiala, capo del governo ceco. Il movimento è gemellato anche con i Tories inglesi. Non a caso, la premier britannica, Liz Truss, ha commentato la vittoria di Meloni con enfasi: «Dal sostegno all’Ucraina all’affrontare le sfide economiche globali, il Regno Unito e l’Italia sono stretti alleati». La prossima mossa potrebbe dare scacco matto. Dopo aver contribuito all’elezione della presidente del parlamento europeo, la maltese Roberta Metsola, adesso i Conservatori puntano a un patto con i Popolari, da sempre custodi dell’ortodossia nell’Ue. Sarebbe il grimaldello per eleggere insieme, nel 2024, il successore dell’ostile Ursula von der Leyen. Intanto, Meloni pensa a rinegoziare il Pnrr. La scelta del ministro per gli Affari europei sarà, quindi, decisiva. Il più accreditato sembra Raffaele Fitto, presidente del gruppo dei Conservatori. Così come sarà decisivo il prescelto per guidare l’Economia. «Bruxelles è certamente prevenuta» ragiona uno degli ambasciatori meloniani. «Proveranno ad attaccarci su Orban, l’estrema destra, il Recovery plan. Ma non stanno arrivando i barbari che mangiano con le mani… Chiediamo cose di buon senso: per esempio, che senso ha mantenere nel nostro piano 130 miliardi di opere pubbliche con i costi delle materie prime raddoppiati? Alla fine, pure loro, dovranno farsene una ragione». Grazie anche alle rassicurazioni che potrebbe offrire il premier uscente, Mario Draghi, con cui i rapporti restano proficui.

Nell’attesa della probabile investitura a premier, Meloni ha comunque smesso i toni bellicosi degli ultimi giorni di campagna elettorale. S’è inabissata. Non sarà certo la leader vociante e fumantina vista all’opposizione. Frangente e strategia consigliano moderatismo e morigeratezza. Soprattutto fino all’eventuale nomina. Fratelli d’Italia è stato l’unico partito a non votare, lo scorso gennaio, per la rielezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Giorgia è dunque attentissima a non urtarne ulteriormente la nota suscettibilità. Piglio responsabile, aria grave, nessun trionfalismo. Non vuole dare l’impressione di sentirsi a Palazzo Chigi, ancor prima di aver ricevuto l’incarico. Meglio una frase di meno che una di troppo. In ossequio al detto siciliano più apprezzato dal presidente: «La migliore parola è quella che non si dice».

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