Qualcosa scricchiola nel gigante asiatico. La crescita cala, la disoccupazione morde, l’edilizia fa sboom, la popolazione diminuisce. E ora il mondo attende le ricette di un presidente dal potere immenso.
Xi Jinping non è mai stato così potente.i Jinping non è mai stato così potente. Confermato in ottobre per la terza volta alla guida del Partito comunista, a metà marzo è stato rieletto anche presidente della Repubblica popolare. Dalla morte di Mao Zedong, nel 1976, è la prima volta che accade: il duplice, terzo mandato quinquennale, oltre a fare di Xi il leader più longevo nella storia della Cina, gli ha consegnato i poteri di un vero dittatore.
Il «Grande rottamatore», che compirà 70 anni il 15 giugno, non ha più freni né contraltari. In più di un decennio di regno ha piazzato suoi fedeli in tutti i gangli del Partito e dello Stato. E se già nel 2018 era riuscito a cancellare la regola del tetto dei due mandati, introdotta nel 1982 dal suo predecessore Deng Xiaoping, negli ultimi cinque anni Xi ha potuto impunemente sovvertirne anche la linea politica: il presidente ha strangolato la gestione «liberale» dell’economia e della società, le aperture con cui Deng aveva fatto fare passi da gigante alla Cina, e ha impostato relazioni internazionali basate sulla pura forza.
Eppure, anche se oggi è al culmine del potere, il povero Xi rischia di affogare in un mare di guai. Il problema numero 1, sulla sua scrivania, è la frenata dell’economia. A fine marzo il Congresso nazionale del popolo, la Camera cinese i cui 2.980 «deputati» rispondono di fatto al Partito comunista, ha fissato come obiettivo per il 2023 un incremento del 5 per cento: un dato molto modesto, per Pechino, che il Congresso ha giustificato agli occhi del mondo con un fumoso proclama sulla «necessità di ricercare equilibrio nella stabilità». Malgrado sia il valore più basso dal 1991 (escludendo gli anni di pandemia), la maggior parte degli analisti lo ritiene comunque improbabile.
In effetti, la Cina comincia a fare i conti con difficoltà a dir poco imponenti. Non si tratta soltanto dei disastri produttivi causati dalla schizofrenica gestione del Covid nel 2022 (ora c’è la paura di una nuova ondata di contagi: a fine giugno si temono 65 milioni di casi a settimana). Stanno insorgendo anche problemi «sindacali» mai visti: il China labour bullettin ha rivelato che da gennaio al 17 maggio si sono svolti 135 scioperi nel Paese, 30 dei quali in maggio, contro i ritardi nel pagamento degli arretrati. Il Clb è una delle poche organizzazioni non governative rimaste in piedi a Hong Kong, e stima che i suoi dati «catturino» appena il 10-15 per cento delle proteste. Se fosse così, Xi ha a che fare con un problema mai visto: una marea montante di contestazioni. Del resto, a pesare sull’economia cinese oggi è soprattutto la fuga delle produzioni straniere. Spinti anche dal pressante embargo tecnologico deciso dal presidente americano Joe Biden, gli investitori globali traslocano in India, Thailandia, Vietnam, o comunque verso lidi produttivi meno problematici. Nella seconda metà del 2022, gli investimenti esteri nella Repubblica popolare sono crollati da 150 a 40 miliardi di dollari, il 73 per cento in meno rispetto al 2021. È il dato peggiore dal 1999. Uno stillicidio di addii. La Samsung sudcoerana ha spostato tre quarti dell’apparato produttivo in Vietnam: i suoi dipendenti in Cina, 60 mila nel 2013, oggi sono meno di 15 mila. Poi c’è il «reshoring», il cosiddetto rientro a casa. Uno degli ultimi annunci è venuto dalla Ford, che taglierà 1.300 posti di lavoro nelle fabbriche cinesi e traslocherà la produzione di batterie in Michigan, con una spesa da 3,5 miliardi. La Solar energy industries association, che riunisce circa mille grandi imprese americane del fotovoltaico, ha annunciato a fine aprile un ciclopico piano di rientro in patria delle produzioni: «In dieci anni», prevede la Seia, «gli Stati Uniti scalzeranno la Cina dal suo primato nel settore».
La «grande fuga» è colpa anche della crescente aggressività di Xi. Il dittatore fa sempre più paura. Dal 2012, in dieci anni, il presidente-dittatore ha più che raddoppiato la spesa militare, da 145 a oltre 300 miliardi di dollari, e nel 2023 l’accrescerà ancora del 7,2 per cento. Dal 2014 Pechino ha schiacciato ogni opposizione e minaccia Taiwan con continue prove di forza militari. All’inizio del febbraio 2022, poi, Xi ha siglato un «patto di ferro» con Vladimir Putin, dando idealmente vita a una grande coalizione anti-occidentale. E quando il 24 di quel mese la Russia ha invaso l’Ucraina, la Cina s’è messa a giocare un ambiguo ruolo diplomatico, ma nella sostanza è sempre rimasta al suo fianco.
L’Esercito popolare di liberazione gonfia i muscoli, ma la disoccupazione fa lo stesso ed è un problema montante per il presidente. Se è vero che il tasso ufficiale dei senza lavoro cinesi è stabile attorno al 6 per cento, nella fascia di popolazione tra 16 e 24 anni cresce a ritmi allarmanti e in aprile è balzato al 19,6 per cento. Per gli 11,6 milioni di giovani cinesi che prenderanno una laurea quest’anno, gli sbocchi professionali sono sempre più stretti. Il rischio, concreto, è che il consenso del regime – tradizionalmente più alto nelle fasce giovanili – possa incrinarsi.
Un altro guaio di Xi, altrettanto serio, viene dal disastroso debito degli enti locali, esploso nei due anni di pandemia. A fine aprile il Guizhou, la più povera delle 32 province della Cina, un territorio montuoso da 35 milioni d’abitanti nel sud-ovest del Paese, ha lanciato un appello al governo per essere salvata dal default. La trasparenza sui dati cinesi è scarsa, ma secondo la Cnn il debito del Guizhou era già di 3.600 miliardi di dollari a fine 2021. Quindi Xi oggi ha anche questo problema: accanto al debito «ufficiale» della Cina, che il Fondo monetario internazionale in aprile stimava sui 5 mila miliardi di dollari – valore più che sostenibile, vicino all’82 per cento del Pil – negli enti locali si nasconde un debito «fantasma» che vale almeno dieci volte tanto. L’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, scrive che in Cina «i prestiti municipali hanno raggiunto il 280 per cento delle entrate, e gli enti locali faticano a pagare gli interessi». Nel 2022, tranne Shanghai, tutte le province sono finite in deficit. Non pagano i fornitori e non rispettano gli impegni assunti con le banche. Molte hanno smesso perfino di versare stipendi e pensioni.
L’immenso debito accumulato dagli enti locali sta bloccando tutti i loro investimenti, dalle grandi infrastrutture all’edilizia. E qui si passa a un altro guaio di Xi: la bolla immobiliare. Il problema è immenso La Cina aveva già fatto tremare le Borse mondiali nel 2021, quando finirono in crisi alcuni colossi del settore come Evergrande, azzoppato da un indebitamento da 305 miliardi. Dopo decenni trascorsi in una dissennata corsa a innalzare migliaia di grattacieli, in massima parte rimasti invenduti, lo scoppio della bolla non può che avere effetti perniciosi sul Pil cinese, basato per un terzo sul mattone.
Certo, per arginare questo disastro Pechino può usare strumenti impensabili per le democrazie occidentali: può falsificare le sue statistiche, o chiudere la Borsa, come fece due anni fa; può anche imporre alle banche di acquistare le società in default. Ma anche le banche cinesi non sono proprio in salute. E questo è un altro guaio per il presidente. In aprile sono «saltate» almeno sei grosse casse rurali nella provincia centrale dello Henan, dove sono evaporati gli averi di oltre 400 mila risparmiatori, e il contagio – qualcosa di simile ai recenti fallimenti bancari in America – pare si stia espandendo. Ma le difficoltà riguardano anche i più grandi istituti, fiaccati da crediti in sofferenza per circa 100 miliardi: colpa dell’impasse della Belt and Road initiative, la «Via della seta» che puntava a realizzare infrastrutture da 2 mila miliardi di dollari, e con cui Xi sperava di legare a sé buona parte dell’Europa, metà dell’Asia e due terzi dell’Africa. Molti crediti si sono incagliati per le crisi finanziarie dei Paesi in via di sviluppo, gonfiate dalla pandemia e dal rialzo globale dei tassi d’interesse. Infine, resta il guaio più a lunga gittata: la demografia. Nel 2022, per la prima volta dal 1961, il numero è calato di 850 mila abitanti, e l’invecchiamento rischia di creare un disastro previdenziale: forse quello più suscettibile di compromettere le ambizioni di Xi. Dal 1956 gli uomini possono andare in pensione a 60 anni, le donne a 50. Il peso dei loro assegni sulle casse dello Stato per ora non è eccessivo (le cifre erogate sono modeste), ma un’età di pensionamento così bassa significa che il numero di quanti si ritireranno è destinato a crescere velocemente: il South China Morning Post scrive che «il governo stima che negli ultimi 10 anni siano andati in pensione 40 milioni di cinesi, e altri 50 milioni li seguiranno nei prossimi tre: troppi perché il sistema possa reggere». Quanti guai per l’imperatore.