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Cosa succede se scoppia la guerra per Taiwan (o per le Filippine)

Cosa succede se scoppia la guerra per Taiwan (o per le Filippine)

Qualcuno lo chiama «The big one»: un conflitto tra Cina e Stati Uniti che coinvolgerebbe i rispettivi alleati nel mondo. E la scintilla, sempre più concreta, potrebbe accendersi nel mar Cinese meridionale.


Il 2024 inizia sotto l’ombra di due possibili «cigni neri» bellici, ed entrambi hanno la forma di un’isola: Taiwan e le Filippine. Sono dieci anni, ormai, che il rischio di una guerra globale ha agguantato la prima, piazzata a un classico tiro di schioppo dalla costa cinese: in realtà è dal 1949 che la Cina comunista rivendica la proprietà di Taiwan, ma lo fa con voce sempre più minacciosa dal 2012, con la salita al potere di Xi Jinping. E nel discorso alla nazione di fine 2023, il presidente ha sinistramente confermato che «la Cina sarà di sicuro riunificata». Pochi giorni dopo ha sostituito il ministro della Difesa, promuovendo a capo della Forza militare di Pechino Dong Jun, già numero uno della Marina.

Anche la seconda isola a rischio di guerra sta nel mar Cinese, un po’ più a sud: in realtà le Filippine sono un arcipelago con oltre settemila lembi di terra, grandi e minuscoli, ma le rivendicazioni cinesi arrivano anche qui, a ondate sempre più prepotenti. L’aggressività di Pechino ha toccato il culmine proprio negli ultimi mesi. Il Wall Street Journal scrive che i toni sempre più brutali usati da Xi Jinping in politica estera trovino una causa anche e soprattutto nel rallentamento economico cinese, nella caduta di un modello produttivo che ancora un anno prima del Covid pareva invincibile, e nell’allontanarsi dell’agognato sorpasso rispetto al Prodotto interno lordo americano. Il settimanale Forbes aggiunge che la crisi dell’economia di Pechino, per l’Occidente libero, è una notizia paradossalmente peggiore del suo correre a vele spiegate degli scorsi decenni, soprattutto perché oggi Xi è un «presidente a vita», cioè un dittatore, e davanti a sé non vede più la supremazia globale che fino al 2019-20 pareva un risultato ovvio, a portata di mano, inevitabile.

La Cina invecchia e non corre più al 10 per cento annuo: perde fette di mercato, anzi, e un numero crescente di grandi imprese l’abbandona per spostarsi in India o per tornare a casa, in Europa e negli Stati Uniti. Nella Repubblica popolare di fine 2023 quasi tutto funziona peggio di prima, tranne le forze armate cui Xi ha destinato continui aumenti di spesa. Nel 2023 quella dichiarata ufficialmente è arrivata al 9 per cento del Pil, un valore mai raggiunto: 292 miliardi di dollari, contro i 175 del 2019, prima della pandemia. Più navi, più aerei, più missili, arsenali pieni di munizioni. Pechino non è mai stata così pericolosa. E si sente. Dopo un’estate e un autunno fatti di incursioni navali, in ottobre il governo filippino ha accusato le navi da guerra cinesi di avere «intenzionalmente speronato» due suoi guardacoste, posti a difesa della Secca di Scarborough e dell’atollo di Ayungin, entrambi a ovest dell’arcipelago: la Repubblica popolare rivendica le due isolette dal 1999, e insiste anche se nel 2016 una sentenza del Tribunale internazionale dell’Aia ha stabilito siano parte integrale del territorio di Manila. La situazione è peggiorata dallo scorso 10 dicembre, quando una fregata cinese ha affondato un’imbarcazione filippina che tentava di rifornire di vettovaglie i militari acquartierati sui due isolotti. Il governo di Ferdinand Marcos Jr ha lanciato l’allarme: «La Cina vuole impadronirsi di Ayungin e Scarborough per costruirci nuove basi militari».

Non sarebbe la prima volta: l’Esercito popolare di liberazione l’ha già fatto nel 2014, nell’atollo di Panganiban. Dopo averlo occupato illegittimamente, l’ha trasformato in una base navale militare, con tanto di piste d’atterraggio. È proprio per questo se da nove anni le Filippine hanno firmato con gli Stati Uniti un accordo di cooperazione militare che prevede l’intervento americano in caso di un attacco. È per questo se alle proteste di Manila, il 10 dicembre, s’è affiancata la condanna degli Usa. Pechino, però, ha reagito con inusitata durezza: «Il mar Cinese non è più esclusivo terreno di caccia di Washington». Ed è sempre per questo se la Casa Bianca ha inviato nel mar Cinese una flotta con a capo la portaerei Ronald Reagan. È capitato anche qualche incontro ravvicinato tra caccia americani e cinesi. Quanto a Taiwan, le dimostrazioni muscolari di Pechino non si contano davvero più. Sono due anni che, settimana dopo settimana e sempre più minacciose, grandi flotte di jet da caccia e di bombardieri volteggiano nello spazio aereo esclusivo di Taipei.

Sulla costa davanti all’isola, negli ultimi 24 mesi, la Cina ha potenziato postazioni missilistiche e basi dei marines (otto brigate, per 100 mila uomini), mentre la sua marina s’è dotata di colossali mezzi da sbarco. A metà dicembre nei cieli taiwanesi sono apparsi anche alcuni palloni-spia, simili a quelli abbattuti nel febbraio 2023 dagli americani, e il Parlamento di Taipei ha deciso d’innalzare le pene per chi vende segreti militari a potenze straniere. Intanto Xi Jinping continua ad alzare la voce contro le forniture di armi statunitensi, definendo ormai «inevitabile» la riunificazione. In effetti, Taiwan è vicina a un appuntamento elettorale che potrebbe rivelarsi cruciale. Alle presidenziali del 13 gennaio si confronteranno il candidato del Partito democratico progressista, da tempo al governo e da sempre fautore dell’indipendenza, e quelli dei due movimenti d’opposizione: il Kuomintang e il Partito popolare, assai più inclini al dialogo con Pechino, che infatti li appoggia platealmente e in novembre aveva fatto di tutto – senza riuscirci – perché andassero uniti al voto. Il risultato elettorale sarà un passaggio difficile nei rapporti tra le due Cine.

È per questi scenari critici che Andrew Krepinevich, forse il massimo analista americano di strategia militare, scrive sull’ultimo numero della rivista Foreign Affairs che Taiwan e le Filippine sono la miccia accesa di quella che definisce «The big one»: la grande guerra tra Cina e Stati Uniti. Lo studioso pare convinto sia più probabile un attacco contro Taipei, un obiettivo che per Pechino è strategico dal punto di vista economico per via delle fondamentali e colossali produzioni di microchip taiwanesi. Krepinevich esclude ottimisticamente l’uso di armi nucleari e ipotizza tre possibili sviluppi militari: nel primo l’esercito cinese, approfittando del fatto che le forze armate di Washington in questo momento sono già assai impegnate su tre fronti (la difesa dell’Ucraina, di Israele e del Canale di Suez), prende l’isola in meno di 24 ore, prima dell’arrivo dei rinforzi americani; nel secondo l’assalto cinese viene invece respinto grazie all’intervento statunitense. Entrambi gli scenari vedrebbero il conflitto chiudersi rapidamente, a favore di una o dell’altra parte. Krepinevich però non crede andrà così, e teme sia più probabile una terza soluzione: e cioè che inizi un conflitto lungo, con l’obiettivo dello sfinimento dell’avversario. Un simile esito bellico ha un rischio, scrive Krepinevich: finirebbe per coinvolgere gli alleati. I più importanti sono l’India e il Giappone dalla parte degli Stati Uniti, e la Russia e la Corea del Nord dalla parte della Cina. «Proprio come le guerre locali asiatiche ed europee alla fine degli anni Trenta si sono allargate fino a diventare globali», scrive lo studioso, «una guerra con la Cina per Taiwan o per le Filippine potrebbe affiancare quelle in Ucraina e in Medio Oriente». Questo, più che un «cigno nero», sarebbe quello che il mondo per sua fortuna non vede più dal settembre 1945: un conflitto globale.

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