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India: gli attacchi terroristici nel caos della pandemia

India: gli attacchi terroristici nel caos della pandemia

Alla crescita esponenziale dei contagi si sommano le minacce islamiche, gli scontri etnico-religiosi e le contestazioni al premier Modi. Incapace di garantire la sicurezza economica, sociale e sanitaria del Paese.


Non c’è solo dove la disastrosa gestione dell’emergenza pandemica da coronavirus a inchiodare il primo ministro Narendra Modi alle sue responsabilità (mentre scriviamo i contagi ufficiali crescono verso i tre milioni). Non ci sono solo gli indicatori economici a preoccupare, dato il forte aumento della disoccupazione urbana e rurale, che continua a colpire soprattutto i lavoratori migranti, danneggiati dalla restrizione della circolazione delle persone tra regioni e ormai restii a tornare nelle città.

Nel Subcontinente, insieme con i contagi aumentano oggi le preoccupazioni per la tenuta della sicurezza nazionale. E, in particolare, per gli scontri etnico-religiosi, che restano la più tragica minaccia per il governo indiano e, dopo le violenze esplose a febbraio a Nuova Delhi, oggi si sono diffusi a macchia d’olio in tutto il Paese. Come a Bangalore, capitale dello Stato meridionale di Karnataka e centro d’eccellenza dell’industria tecnologica indiana: qui lo scorso 12 agosto sono scoppiati gravi incidenti con protagoniste le minoranze musulmane. Motivo apparente delle proteste: la pubblicazione di un post su Facebook che avrebbe offeso il profeta Maometto. Ma dietro c’è molto altro.

Una folla inferocita di oltre 600 fedeli musulmani è così scesa in piazza e, armata di bastoni, sassi e bottiglie incendiarie, ha dato vita a una non stop di disordini durante i quali è stata anche assaltata la stazione di polizia dell’area di Pulakeshinagar, mentre diverse auto e moto della polizia sono state date alla fiamme in numerosi quartieri.

Secondo quanto riportato dalla stampa indiana, il post incriminato sarebbe stato scritto – e subito cancellato – da P. Naveen, nipote di Akhanda Srinivas Murthy, parlamentare dello Stato di Karnataka, al quale è stata poi incendiata la casa. L’autore del post si è difeso sostenendo che il suo profilo era stato hackerato, ed è stato arrestato insieme con altri 100 manifestanti.

Queste proteste, in realtà, sono fomentate dai leader locali del partito Partito Socialista Democratico dell’India (Sdpi), che da mesi nelle aree di Bilal Bagh e D.J. Halli aizza le folle contro Narendra Modi. Il due volte premier indiano è infatti al centro di una serie di attacchi politici, il cui crescendo si fa sempre più estremo, dopo che nel gennaio 2020 è stato varato il Citizenship Amendment Act (Caa): la nuova legge sulla cittadinanza che, di fatto, concede il titolo di cittadino ai migranti provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan, a patto però che non siano di religione islamica.

Anche la precedente legge del 1955 era stata accolta e considerata discriminatoria, perché non menzionava in alcun modo i musulmani. Ma lo smacco odierno di Modi, che ha puntato volutamente a non sanare il cattivo rapporto tra la maggioranza induista e la minoranza islamica dell’India, ha riaperto la ferita e provocato scontri in tutto il Paese, dove si contano già una trentina di morti.

Tanto è bastato ai movimenti islamisti per scatenare violenze in nome dell’Islam e dei movimenti che lottano per l’indipendenza del Kashmir, regione a maggioranza islamica, ferocemente contesa tra India e Pakistan.

Oggi, quindi, quasi 200 milioni di musulmani del Subcontinente sono sul piede di guerra. La maggior parte, come detto, opera sotto l’ombrello dei socialisti dello Sdpi, che altro non è se non il braccio politico del Popular Front of India (Pfi), organizzazione fondamentalista islamica che racchiude una galassia di sigle che turbano i sogni del governo: tra queste, il Fronte Nazionale (Ndf), il Manitha Neethi Pasarai (Mnp), il Karnataka Forum for Dignity (Kfd) e il Movimento degli studenti islamici dell’India (Simi).

A far infuriare i gruppi islamici indiani è stata anche la revisione del Registro Nazionale dei Cittadini dell’India, che come primo atto ha depennato dal registro circa due milioni di persone, la maggior parte delle quali appartenente alla religione maomettana. Prima dei disordini di Bangalore, il 9 agosto a Prayagraj, nell’Uttar Pradesh (regione che confina con la capitale), alcune persone a volto coperto avevano tentato di uccidere Abhishek Shukla, avvocato dell’Alta corte di Allahabad e segretario congiunto dell’Ordine degli avvocati. L’uomo, miracolosamente scampato all’attentato, era entrato nel mirino di alcuni gruppi estremisti dopo aver presentato una petizione contro la costruzione di una moschea illegale nei locali dell’Alta Corte di Allahbad. Simili episodi si registrano quasi ogni giorno, in un crescendo di attacchi che rientrano tutti alla voce «violenze a sfondo etnico-religioso».

Le nuove tensioni, peraltro, giungono a ridosso della pubblicazione di un rapporto delle Nazioni Unite sul terrorismo in India, nel quale si parla di «numeri significativi della presenza di terroristi di Al Qaeda e dell’Isis nelle zone di Kerala e Karnataka». Ovvero luoghi dove i qaedisti operano sotto il comando del leader Osama Mahmood, in stretto contatto con i Talebani afgani. Al Qaeda avrebbe recentemente trasferito in India 200 militanti dal Pakistan, Bangladesh e Myanmar, allo scopo di pianificare nuovi clamorosi attacchi.

Questi numeri non si discostano dalle indagini emerse sull’affiliata indiana dell’Isis, la Wilayah of Hind («Provincia dell’India»), protagonista di ripetuti attacchi alle forze di sicurezza del Kashmir a partire dal 2015, quando annunciò di aver istituito la provincia del Khorasan, «per coprire Afghanistan, Pakistan e le terre vicine».

Ciò nonostante, la più grande preoccupazione dell’intelligence indiana sembra essere attualmente rappresentata dalla islamica Turchia: in un recente rapporto sulla sicurezza, infatti, Nuova Delhi afferma che Ankara ha stanziato ingenti fondi passati dall’intelligence turca (Mit) per radicalizzare i musulmani indiani con l’aiuto di predicatori reclutati dai quadri dell’Isis.

«La Turchia fornisce borse di studio e gestisce programmi di scambio per studenti del Kashmir indiano e musulmani per studiare in Turchia attraverso Ong sponsorizzate dallo Stato. Ma una volta che gli studenti atterrano in Turchia, vengono avvicinati e rilevati dai delegati pakistani che operano lì», scrive il rapporto che Panorama ha potuto leggere. Vi si afferma anche che: «La maggior parte di queste organizzazioni ha collegamenti diretti con il governo turco, il presidente Recep Tayyip Erdogan o la sua famiglia». E ancora: «Siamo a conoscenza di alcune persone di questo gruppo che si recano in Qatar per incontrare soggetti turchi che finanziano le loro attività».

Le preoccupazioni sulla sicurezza nazionale e gli scontri etnico-religiosi si sommano dunque alla minaccia per il governo indiano rappresentata dall’emergenza sanitaria da coronavirus, che vede oggi Nuova Delhi vero epicentro della pandemia mondiale, con 460 milioni di cittadini isolati e costretti a recarsi al lavoro a piedi.

Questa bomba sociale, unitamente alle tensioni religiose, è perciò innescata e pronta a esplodere.

Ha riassunto bene la situazione Ranil Salgado, capo missione del Fondo Monetario Internazionale per l’India e assistente direttore del Dipartimento Asia e Pacifico. Il quale afferma: «L’impatto economico è sostanziale e di ampia portata. Gli indicatori ad alta frequenza indicano un netto calo della produzione industriale, del sentimento imprenditoriale generale, delle vendite di veicoli e del commercio».

Tutto questo comunque non riduce la spavalderia del premier Modi. Il quale, nonostante le cattive acque in cui naviga il Paese del Gange, ostenta sicurezza. E non si cura dell’hastag #ModiMadeDisaster, con cui è stato bollato il suo operato generale, avendo risposto con soluzioni più poliziesche che sanitarie all’aggravarsi della crisi, senza curarsi di fornire alcuna profilassi alla popolazione.

Così, la «sua» India dimostra di aver smarrito quell’impronta laica faticosamente raggiunta dai suoi predecessori, che l’avevano trasformata in una tigre economica capace di competere a livello scientifico con Cina e Unione europea. Oggi appare più che altro una tigre di carta di fronte a problemi sociali ed economici. Che presto potrebbero rivelarsi strutturali e minacciare la pace e la sicurezza dell’intera regione.

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