Lo stop all’uso del velo nelle scuole d’Oltralpe? Decisione necessaria. Le periferie? Si sta diffondendo il separatismo religioso dei musulmani, là le istituzioni di riferimento sono le moschee. Parola di Bernard Rougier, influente sociologo del Mondo arabo e autore di un libro che ha messo a nudo crude verità. Panorama ci ha parlato.
Sul tema dell’abaya era necessario prendere una posizione di principio». Bernard Rougier, professore di Sociologia del Mondo arabo contemporaneo alla Sorbona di Parigi, non ha dubbi sulla polemica scoppiata dopo che il presidente francese Emmanuel Macron ha vietato l’utilizzo nelle scuole del tanto contestato indumento femminile di origine araba. Una decisione presa a difesa della laicità, conseguente all’impennata di infrazioni alla legge che vieta agli studenti di presentarsi in classe con abiti e simboli religiosi troppo vistosi, come il velo, la kippah o il turbante. Ma la mossa ha rilanciato il dibattito ormai cristallizzatosi in Francia, Paese dei Lumi che non riesce più a fare i conti con la multietnicità delle sue periferie.
I rappresentanti musulmani e buona parte della sinistra hanno annunciato ricorsi al Consiglio di Stato, sostenendo che l’abaya non ha una connotazione religiosa ed è solo un abito alla moda venduto in molti negozi. Vietare questo vestito che copre tutto il corpo tranne mani e il volto, a loro avviso, porterebbe a una stigmatizzazione delle ragazze musulmane.
Non è di questo avviso Rougier: «L’abaya è un abito religioso, sia per le giovani sia per i predicatori che le incoraggiano a utilizzarlo». Sa di cosa parla il professore della Sorbona, che nel 2020 ha pubblicato un libro-inchiesta realizzato in collaborazione con i suoi studenti, I territori conquistati dell’islamismo, nel quale è stata documentata la presenza di focolai islamisti nelle banlieue. Grazie alle informazioni raccolte, è stato possibile tracciare una cartografia dell’Islam radicale presente nelle periferie di tutto il Paese.
Professor Rougier, perché è d’accordo con il vietare l’abaya negli istituti scolastici?
In nome della neutralità della scuola pubblica bisognava evitare che un simile abito si diffondesse nelle aule. Ma una misura come questa era necessaria anche per proteggere le giovani musulmane.
Da cosa?
L’islamismo lavora sulla colpevolizzazione. La religione viene utilizzata come uno strumento di potere: alle giovani viene detto che non si è delle buone musulmane se non si indossa l’abaya. Era importante assumere una posizione in difesa della scuola, che è il luogo del riconoscimento dell’universale, non dei particolarismi. Sappiamo che dietro l’abaya c’è la contestazione di certi insegnamenti, la richiesta di regole particolari. Il corpo della donna diventa un oggetto di sfida per l’islamismo, per questo è necessario proteggere le ragazze musulmane che hanno una concezione dell’Islam per la quale l’abaya non è un attributo indispensabile all’identità islamica.
Eppure alcuni sostengono che l’abito non abbia nulla a che vedere con l’Islam.
L’abaya ha una connotazione ambigua. Rispetta un’ingiunzione di pudore che affonda le radici nei testi sacri come il Corano e la Sunna. Negli ultimi tempi, molti predicatori islamisti hanno elaborato questi obblighi per le ragazze più giovani, incitandole a promuovere presso le loro coetanee musulmane l’utilizzo di questo abito attraverso i social network, in particolare TikTok. Ci sono però anche quelli che tengono corsi online. Danno indicazioni sull’uso di questi indumenti, spiegando che bisogna proteggersi da una società di miscredenti come quella europea. Gli islamisti fanno un doppio discorso: alle ragazze spiegano che l’abaya è un vestito religioso, mentre al pubblico dicono che è un normale abito.
Ma che cosa intende esattamente per islamismo e in che modo questo concetto differisce dall’Islam?
L’islamismo arriva ogni volta che ci si appropria della parola di Dio o si rifiutano le interpretazioni del testo sacro differente dalle proprie. In Francia abbiamo intellettuali musulmani liberali di grande talento, come professori universitari, saggisti e scrittori, ma il loro pensiero non entra nel campo religioso perché molti imam sono influenzabili da una certa retorica.
Che penetra nelle banlieue francesi, come ha dimostrato nel suo libro.
Ho cominciato a lavorarci dopo aver passato oltre 15 anni in Medio Oriente. Quello che mi ha più colpito è stato vedere fino a che punto l’islamismo avesse preso piede nella religione musulmana di Francia. Con gli studenti che hanno partecipato ai lavori, tutti provenienti dalle banlieue e iscritti al secondo anno di laurea magistrale, abbiamo visto come certe tematiche, in particolar modo salafite, circolassero in tutto il Paese.
Cosa l’ha colpita di più?
Vedere il successo di una certa forma di separatismo religioso, che ha preso piede attraverso degli slogan. Le nuove generazioni di fede musulmana conoscono i testi scritti nel 18esimo secolo, mentre era in corso una guerra contro l’impero ottomano, riadattati nell’attuale contesto francese. Ai giovani viene spiegato come proteggere la fede, perché non bisogna avere amici di una confessione differente da quella musulmana o le ragioni in base alle quali è necessario rinegoziare le frontiere tra religione e spazio pubblico.
Quindi lo Stato francese è stato cacciato dalle periferie?
Il progetto repubblicano non è rappresentato in certi luoghi. Nei quartieri popolari l’Islam è diventato un elemento identitario, che trova conferma nelle moschee. Dinnanzi a una simile dinamica, lo Stato non è riuscito a creare un legame sociale alternativo, ha perso i mezzi per far vivere il suo discorso repubblicano. Le scuole o i luoghi dove fare sport, per esempio, sono diventati spazi dove il fenomeno islamista si è diffuso. La Repubblica francese deve riaffermare i suoi valori investendo su persone capaci di portare avanti questi principi, indebolendo così l’attrattività dei predicatori più radicali.
Ma come si è arrivati a una situazione simile?
Per vigliaccheria, rinunce, compromessi. Come il professore che non osa contraddire la sua classe su questioni di principio. Nel settore universitario, che è molto a sinistra, il mio libro è stato attaccato. Quando vendevo 200 copie tutti mi adoravano, ma dopo aver superato le 40 mila sono diventato un intellettuale fascista per loro, che hanno cominciato a escludermi e ad associare il mio nome a correnti politiche di estrema destra. È «cancel culture» nei confronti di chi descrive la realtà. Io non ho fatto altro che testimoniare la presenza di un discorso islamista in diversi campi, senza accompagnare il mio lavoro alla politica. La maggior parte dei ricercatori francesi che lavora sull’Islam non osa scriverlo per timore di favorire l’estrema destra, ma in questo modo non si riescono a prevenire certi episodi come gli attentati che abbiamo avuto in Francia.
Il problema però ha radici lontane…
Questa dinamica esiste da una quarantina di anni in Medio Oriente, nel Maghreb e nell’Africa dell’ovest. I Paesi magrebini e quelli appartenenti all’area del Mashrek tengono un discorso conservatore di matrice islamista che influisce nello spazio sociale. A subire questo ascendente sono soprattutto i giovani, che poi attraversano il Mediterraneo portando con sé queste concezioni. Si installano nelle periferie d’Europa dove si crea una concentrazione che ha effetti catastrofici. Non voglio entrare nella questione migratoria, vediamo quant’è difficile fermare i flussi. Bisognerebbe rivoluzionare l’Islam nei suoi Paesi d’origine. Per una simile trasformazione, però, è necessario avere una libertà religiosa che non c’è e democratizzare i poteri pubblici. Ma non ne siamo in grado. Per questo l’Europa rappresenta un’occasione utile a sviluppare un’altra forma di Islam.