Il governo del premier Naftali Bennett ha un piano di «raddoppio» degli insediamenti nel Golan, in un territorio rivendicato dalla Siria. La mossa aggraverà ancora di più la tensione con i palestinesi, già innescata da altre colonie ebraiche previste nella delicata zona della West Bank.
Colline verdi, vigneti, coltivazioni di meli, ciliegi, ulivi, sterminati campi di cereali. È il paradiso sotto gli occhi di Gabi Koniel, 60 anni, proprietario di un’azienda che produce frutta. Ogni mattina, quando apre la finestra della sua casa nel kibbutz, Merom Golan, ha di fronte questo sogno. La sua azienda si chiama Beresheet, in ebraico significa «In principio», l’incipit della Genesi, il primo libro della Bibbia.
Gabi ha la meravigliosa sensazione di trovarsi nella «Terra promessa». Ma appena rammenta la guerra civile in Siria, si rabbuia. «Il confine è vicino, ci siamo sentiti per anni in prima linea». Il Golan apparteneva a Damasco fino al 1967. Una terra di frontiera, dominata dalla comunità drusa, fino all’arrivo di Israele: «I drusi parlano arabo ma non sono musulmani» precisa Gabi. «Abbiamo ottime relazioni con loro. È una situazione differente dalla Cisgiordania. Lì si lotta per ogni centimetro quadrato di territorio, qui c’è spazio e la maggior parte degli abitanti vuole che rimanga incontaminato, verde, e non diventi caotico come Tel Aviv».
Ancora rivendicato dalla Siria, il Golan, con una popolazione di 52.000 persone, è rimasto fuori dalle grandi rivolte arabe degli ultimi decenni. Qualche colpo di mortaio è venuto a rompere la quiete durante i momenti più caldi della guerra civile al di là del confine. Ma adesso il nuovo governo di Naftali Bennett vuole «raddoppiare» il numero degli abitanti degli insediamenti israeliani. È un modo per rispondere alle richieste dell’ala destra del governo, ma anche per rafforzare il bastione anti-siriano.
Israele ha conquistato le Alture durante la Guerra dei sei giorni nel 1967, assieme a Sinai e Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Le conseguenze di quel conflitto lampo trionfale determinano ancora la realtà attuale, nel bene e nel male. Il Golan è stato annesso nel 1981, il Sinai restituito all’Egitto dopo un accordo di pace nel 1978, la Striscia di Gaza lasciata ai palestinesi nel 2005.
Lo stato finale della Cisgiordania – West Bank in inglese, al-diffa al-gharbiya in arabo – è ancora da definire. Due sanguinose Intifada, le rivolte scoppiate nel 1987 e poi nel 2000 hanno causato migliaia di morti. Le tensioni sono continue. I palestinesi non sono disposti a cedere territori in via definitiva, tanto meno Gerusalemme Est che considerano loro capitale. Lo scontro ora si è acceso nel quartiere di Sheikh Jarrah. Una grana in più per Bennett, già alle prese con le conseguenze della pandemia. La massiccia campagna di vaccinazioni, fino a quattro dosi, gli ha permesso però di annunciare la fine dell’uso del green pass all’inizio di marzo.
Nel frattempo la situazione internazionale è precipitata: la Russia ha invaso l’Ucraina. E il 27 febbraio scorso anche il premier si è proposto come mediatore tra le due nazioni. Lo Stato ebraico ha relazioni amichevoli sia con Kiev sia con Mosca, in entrambi i Paesi vivono importanti comunità ebraiche. Israele ha però un’alleanza speciale, indiscutibile con gli Stati Uniti che rende difficile la sua posizione. Bennett ha così telefonato a Vladimir Putin, con il quale c’era già stato un incontro a ottobre 2021 a Sochi, sul Mar nero. Va ricordato che in Israele vivono circa 900.000 russi.
«È importante trovare punti per il dialogo» ha affermato, diplomatico, Bennett durante il contatto col presidente russo. Che invece è stato inflessibile, ripetendo che «non aveva altra scelta che agire». Il tentativo israeliano quindi si è arenato.La questione degli insediamenti nei Territori «contesi» però resta ancora lì, sul campo, con tutte le sue difficoltà e i pericoli. La coalizione di governo è divisa. Il ministro degli Esteri, il centrista Yair Lapid, mentre il 10 febbraio riceveva la collega tedesca Annalena Baerbock – entrambi davanti ai vessilli delle loro nazioni e dell’Ue – ha precisato che «non costruiremo nulla che impedisca la possibilità di una soluzione a due Stati».
Ma Bennett la pensa diversamente. Lo scorso ottobre il governo ha proposto piani per 3.000 nuove case negli insediamenti ebraici in West Bank. Questa terra disseminata di uliveti e coltivazioni è da sempre teatro di combattimenti. Anche a Betlemme con la sua stupefacente Basilica della natività in pietra chiara, luogo sacro per tutti i cristiani. Ma la vita continua a trascorrere.
Pure per Eliz Cohen, 50 anni, poeta e attivista che vive nel kibbutz Kfar Etzion, tra Beit Lechem e Hebron. «La popolazione negli insediamenti riflette la società israeliana che è complessa. Non ci sono solo radicali e ortodossi di destra» spiega. «Il mio kibbutz segue uno stile di vita socialista. Mio padre ha fondato questo insediamento. La storia ebraica è nata qui, i nostri antenati sono venuti ad abitare su queste colline, ci sono sentimenti e radici molto profondi che ci legano a questi luoghi. Io porto avanti una proposta per mettere fine al conflitto: prevede la creazione di una confederazione sul modello dell’Ue».
Un’utopia, o un sogno, che non convince Ely Karmon, analista dell’International Institute for Counter-Terrorism a Herzliya: «Molte città nella West Bank sono importanti da un punto di vista simbolico: Nablus, Betlemme» puntualizza. «Sono l’eredità dei nostri padri. Non ci sono solo ragioni di sicurezza. Il governo di Bennett ha al suo interno partiti di destra e di sinistra e anche uno arabo. Trovare un equilibrio è difficile. La situazione è molto fluida e condizionata dalle potenze internazionali».
Su tutte, gli Stati Uniti. Il portavoce del dipartimento di stato americano Ned Price ha detto di essere «profondamente preoccupato» per i piani israeliani. «Danneggiano le prospettive di una soluzione a due Stati» ha affermato. L’ex presidente Donald Trump aveva dichiarato che gli insediamenti non erano incompatibili con il diritto internazionale. Era in sintonia totale con il precedente governo guidato da Benjamin Netanyahu, ma pure l’esecutivo guidato da Bennett – leader e storico difensore dei diritti dei coloni – è dello stesso parere.
Il 26 dicembre nel kibbutz Mevo Hama – che ha una magnifica vista sui tre Paesi, Giordania, Siria e Israele – il premier ha posato davanti a un panorama mozzafiato dopo un incontro dove si era appena approvato un piano per spendere un miliardo di shekel (317 milioni di dollari) in migliaia di nuove case e infrastrutture nel Golan; obiettivo, raddoppiare la sua popolazione in un decennio. Anche se negli anni Novanta ci sono stati negoziati per restituire questo territorio alla Siria, all’interno di un più ampio accordo di pace, non si è arrivati mai da alcuna parte.
Gli israeliani tendono a vedere il Golan come luogo di vacanza nella natura. Qui c’è pure l’unica stazione sciistica del Paese. «Nel Golan esiste però il pericolo di una politica aggressiva dei vicini, soprattutto Siria e Libano con possibili attacchi terroristici da parte di Hezbollah» nota Karmon. «E esiste anche una piccola popolazione drusa pro-Israele ben integrata. Dal sud della Siria però gli jihadisti rimangono una minaccia per questa comunità».
Nel 2019 gli Stati Uniti sono diventati il primo grande Paese a riconoscere la sovranità israeliana nel Golan. In segno di gratitudine, lo Stato ebraico aveva dedicato all’allora presidente Trump un insediamento nel Golan, Ramat Trump, le «Alture di Trump». L’ambasciatore americano in Israele David Friedman e sua moglie, Sara Netanyahu e Netanyahu sono stati immortalati da uno scatto, soddisfatti vicino alla grande targa del nuovo insediamento. Ma ora la maggior parte delle lettere d’oro che compongono la scritta d’ingresso sono state strappate via, probabilmente da vandali.
Un cattivo presagio? Naama Cohen, 42 anni, che vive nel Golan con il marito e i suoi cinque figli, drammaterapista, però chiosa: «Le Alture sono parte di Israele da 55 anni, e lo ha anche riconosciuto Trump. Io non potrei andare altrove».