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Lula il «deforestatore»

Lula il «deforestatore»

Sotto il governo del presidente brasiliano (celebrato da tanti media come il «salvatore del pianeta»), la distruzione della giungla amazzonica procede a livelli record. E presto sarà persino possibile scavare in quei terreni per estrarre petrolio.


L’Amazzonia sta morendo. E, al di là delle tante parole («Il Brasile è pronto per costruire un pianeta più sano» aveva detto nel 2022) il presidente Luiz Inácio Lula da Silva non sta facendo nulla per salvarla. Al contrario. Secondo l’Istituto nazionale per la ricerca spaziale, Inpe, solo a febbraio sono stati tagliati 322 chilometri quadrati di foresta. Oltre a quasi doppiare i 199 kmq abbattuti nello stesso mese 2022 dal suo predecessore Jair Bolsonaro, è la maggiore devastazione dell’Amazzonia mai registrata da quando il Brasile ha cominciato a monitorarla.

Ad aggravare la situazione si aggiunge il viaggio di Lula in Cina, tra l’11 e il 15 aprile, in cui viene ufficializzato l’accordo su un satellite sino-brasiliano per monitorare il polmone verde del pianeta: una follia perché significherebbe consegnare definitivamente la sicurezza della foresta a Pechino, che in passato ha già vinto la gara d’appalto miliardaria per costruire la rete elettrica dalla centrale idroelettrica di Belo Monte in Amazzonia fino a Rio.

Visti i dati drammatici di inizio 2023, persino «l’amica» Norvegia ha detto chiaramente al governo brasiliano che il suo pagamento al Fondo Amazzonia, interrotto durante il governo Bolsonaro, è adesso condizionato ai risultati in termini di lotta al disboscamento. Lo stesso ha fatto un altro sostenitore di Lula, il presidente statunitense Joe Biden, che nel corso del viaggio di Lula a Washington, lo scorso febbraio, ha gelato le aspettative per aiutare il Brasile a salvare la foresta: non i 9 miliardi di dollari sognati, ma appena una promessa da 100 milioni, troppo poco anche solo per smettere di tagliare alberi.

Il paradosso è che all’ultima conferenza Onu sull’ambiente, la Cop27, il presidente brasiliano era stato osannato dai media italiani come il salvatore del pianeta. Il Corriere della sera lo descriveva «come una vecchia rockstar che riempie ancora gli stadi e non fa rimpiangere i rapper moderni», aggiungendo che «alla Conferenza sul clima dell’Onu ha dato la sferzata attesa» e «ha potuto marcare in modo netto la distanza dal precedente governo di estrema destra e negazionista» promettendo che «combatterà senza tregua i crimini ambientali, s’impegnerà per la deforestazione zero e istituirà un ministero dei popoli indigeni». Meglio ancora, il quotidiano Domani spiegava che «Lula vuole fare del Brasile un leader globale della lotta ai cambiamenti climatici, rovesciando la narrativa degli anni di Bolsonaro, che ne avevano fatto uno stato canaglia dell’ambiente». Aggiungendo che il presidente «non intende solo avviare il processo di decarbonizzazione, che per il Brasile passa dal portare l’Amazzonia lontana dal baratro dove si trova, ma è uno dei leader del sud globale e di tutte le sue battaglie, con l’ambizione di diventare punto di riferimento per il blocco dei vulnerabili, un ruolo che solo la Cina di Xi Jinping è stata in grado di svolgere».

Ma se si esclude il ministero indigeno istituito nel nuovo governo, per ora i soli dati certi del «nuovo» corso di Lula svelano una realtà drammatica in continuo boom. Molti media hanno dimenticato che nel 2003, il primo anno delle sue presidenze, il «salvatore dell’ambiente» disboscò qualcosa come 25.396 km quadrati di Amazzonia legale, quella protetta dalle leggi; e si superò l’anno dopo, raggiungendo il record di foresta falcidiata da quando, nel 1988, sono iniziate le rilevazioni via satellite, con 27.772 km quadrati di alberi abbattuti. Una superficie più grande della Sicilia. Un record che l’«ecocida» Bolsonaro non ha mai sfiorato nei suoi quattro anni di presidenza (tra il 2019 e il 2022), avendo nel il 2021 abbattuto 13.038 kmq di Amazzonia, meno della metà insomma.

Vero che tra il 2009 e il 2010 il disboscamento si ridusse a poco più di 7 mila kmq, ma le vere cause sono da ricercare nella crisi economica globale che frenò gli appetiti internazionali sul polmone verde del mondo. Fino al 2008 Lula, che lasciò il potere a fine 2010 – concedendo nel frattempo asilo politico all’ex terrorista italiano Cesare Battisti – deforestò molta più Amazzonia legale del vituperato Bolsonaro. Dati alla mano, una media di 18.505 kmq annui contro 11.396. Il tasso di disboscamento annuale della «vecchia rockstar» è stata del 38 per cento in più del «negazionista di estrema destra», per usare i termini del Corriere. Ma il marketing ecologico che Lula promuove, con l’appoggio dei grandi media, smuove gli investitori ambientalisti internazionali, con in testa appunto la Norvegia, grande finanziatrice del Fondo Amazzonia. Piccolo particolare: la multinazionale mineraria più inquinante nel polmone verde del pianeta, condannata nel 2018, è la Hydro, il cui azionista di maggioranza è proprio il governo di Oslo.

Lula piace anche a papa Francesco (che ha sostenuto che lui e Dilma Rousseff – alla guida del Brasile dal 2011 al 2016 – sono stati condannati e hanno sofferto un impeachment per conti pubblici truccati «senza prove»). Bergoglio viene informato di ciò che avviene nella grande foresta pluviale da Virgilio Viana, membro dell’Accademia pontificia di Scienze sociali e direttore della Fondazione Amazzonia Sostenibile. E secondo Viana «Lula è l’unico che può affrontare la rete di criminalità che agisce indisturbata in Amazzonia, come fa la mafia». Sarà, ma se davvero Lula vuole fare qualcosa di buono, dovrà attuare un sistema di controllo all’interno della gestione del suo partito in Amazzonia, per evitare scandali come quello del 2006 rivelato dalla rivista Veja. Secondo il settimanale brasiliano, nello Stato del Pará alcuni membri e parlamentari del Partito dei lavoratori, il PT, legati all’ente pubblico per il controllo della flora e della fauna (l’Ibama), misero in piedi uno schema criminale per facilitare il disboscamento illegale attraverso lo scambio di donazioni per la campagna dei candidati della propria parte politica. Nel giugno 2005 la Polizia Federale arrestò nello Stato del Mato Grosso 102 persone accusate di aver abbattuto quasi 2 milioni di metri cubi di alberi in cambio di tangenti. Una simile quantità di legname basterebbe a caricare 66 mila camion che, in fila, percorrerebbero 2.640 chilometri, più della distanza tra Roma e Oslo. La banda, che divenne nota come la «mafia delle termiti», era guidata da Hugo Werle, allora direttore dell’Ibama nelle città di Cuiabá. Membro del consiglio fiscale statale del PT, Werle era stato un organizzatore non ufficiale della raccolta fondi per la campagna di Lula.

Dettagli che fanno parte del passato, si dirà. Ora il grosso problema del leader brasiliano è Marina Silva: la ministra dell’Ambiente che già durante le sue prime due presidenze lo aveva scaricato accusandolo di essere un disboscatore seriale. Non a caso la Petrobras, tornata sotto il controllo di Lula, ora vuole addirittura estrarre petrolio in Amazzonia. La potente compagnia petrolifera statale ha già annunciato l’intenzione di esplorare la foce del Rio delle Amazzoni (nel silenzio surreale di ambientalisti e media), e la ministra Silva è in rotta di collisione con Lula, sostenitore del progetto. Il presidente vede infatti il petrolio come un simbolo di ricchezza e progresso: la fotografia in cui appare con le mani sporche di «oro nero» è diventata un simbolo della Petrobras. In questo scontro, che appare inevitabile, potrebbero di nuovo verificarsi alcuni dei crimini ambientali avvenuti dei primi due mandati di Lula. Come la costruzione della centrale idroelettrica di Belo Monte: la diga, realizzata sul fiume brasiliano Tapajós, iniziò a produrre energia nel 2015 ed ebbe un impatto disastroso su flora, fauna e comunità indigene di pescatori. Se la storia si ripeterà, per l’Amazzonia sarà il disastro fnale.

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