Parigi è inflessibile quando si tratta di riprendere Roma sulla gestione di sbarchi e navi delle Ong. Soprattutto, però, presidia i propri interessi nel nostro Paese. Con un’innata vocazione «sovranista» che ben poco guarda alla reciprocità europea.
Quando sono in gioco i buoni rapporti con la Francia, e gli affari dei transalpini nella Penisola, c’è sempre qualcuno dal Partito democratico che si muove come ambasciatore di pace. Nei giorni dello scontro tra Emmanuel Macron e Giorgia Meloni sugli immigrati clandestini, l’ex segretario del Pd Piero Fassino ha vergato una lunga articolessa per Huffington Post Italia («Italia-Francia: perché alleati e non nemici», 13 novembre) in cui si sosteneva che spesso l’opinione pubblica italiana, sbagliando, «guarda con diffidenza alla Francia, ritenendolo un Paese ostile o predatorio, mosso da un fastidioso sentimento di potenza, la grandeur». Tutti pregiudizi da bar sport della Storia, ovviamente.
Per Fassino, che ha ricordato i mille legami economici e politici tra Parigi e Roma, con il braccio di ferro sui migranti tutto «rischia di essere compromesso dall’arroganza di una destra che invoca a ogni piè sospinto l’interesse nazionale e poi compie atti che lo negano clamorosamente, esponendo l’Italia a un isolamento internazionale da cui il nostro Paese trarrà soltanto negative conseguenze». La terribile profezia fassiniana, ovviamente, spaventa tutti. Il personaggio, insignito della Legion d’Onore al pari di Paolo Gentiloni ed Enrico Letta, non ha però tutti i torti a segnalare i vasti interessi economici e finanziari intrecciati fra Italia e Francia. Dalle telecomunicazioni alle banche, passando per il risparmio gestito e le assicurazioni, il nostro mercato è strategico per tanti colossi d’Oltralpe. E il problema della politica italiana di fronte a tutto ciò non è quello di essere favorevoli o contrari a business in gran parte privati e di mercato. No, il problema è di postura. Insomma, la politica deve semplicemente avere la schiena dritta e farsi rispettare. È questa la sfida che ha di fronte il nuovo governo di Giorgia Meloni.
Amundi è la società di asset management di Crédit Agricole, un colosso che gestisce duemila miliardi di euro di fondi. Mercoledì 16 novembre il suo amministratore delegato Valérie Baudson si è fatta intervistare dal Sole 24 Ore e ha avuto parole al miele per Palazzo Chigi: «Le prime scelte fiscali del nuovo governo italiano appaiono realistiche e anche “market-friendly”; non siamo preoccupati per la sostenibilità del debito pubblico. Abbiamo fiducia nell’Italia, dove pensiamo di continuare a crescere così come in Europa».
Negli anni scorsi, Amundi si è già mangiata i fondi di investimenti Pioneer e ora sembra aver messo nel mirino quelli di Anima. A maggio, i francesi sono saliti al 5,2 per cento della società italiana, che è quotata in Borsa e ha tra i suoi maggiori azionisti Banco Bpm (20,6 per cento) e Poste italiane (11 per cento). Guido Crosetto, che sulla finanza ha un occhio allenato, prima di essere nominato ministro della Difesa, ad agosto, aveva scritto su Twitter: «Mentre noi perdiamo tempo a dibattere sugli strafalcioni di questo o quel politico, Crédit Agricole continua la sua scalata per diventare il secondo polo “italiano” e per controllare tutto il risparmio gestito. Dopo Pioneer toccherà ad Anima? Il tema non è di mercato, è politico».
Già, perché ad aprile il Crédit Agricole è spuntato anche a libro soci del Banco Bpm con un pacchetto del 9,2 per cento, ufficialmente per consolidare i rapporti commerciali. L’amministratore italiano della «banque verte», Giampiero Moioli, ha smentito che le mosse su Anima e Banco Bpm siano l’inizio di una scalata e ha fatto capire che il blitz su Piazza Meda sarebbe di natura difensiva, più che altro per tenere a distanza Unicredit. In ogni caso, sull’asse Parigi-Milano sono in gioco gli equilibri del futuro terzo polo bancario, così come del Monte dei Paschi di Siena, che se davvero finirà diviso in più parti potrebbe vedere in gioco per una parte di sportelli sempre il Crédit Agricole. Di sicuro, in sede di aumento di capitale del Monte, controllato al 64 per cento dal Tesoro italiano, i partner assicurativi francesi di Axa si sono appuntati una bella medaglia e con 200 milioni di euro hanno rilevato una quota dell’8 per cento .
Su tutte queste partite hanno voce in capitolo non solo la Bce, ma anche la Banca d’Italia, l’Ivass, il Tesoro e la Consob. I francesi lo sanno bene e si muovono con grandissima diplomazia. Dai bracci di ferro dell’Eliseo sull’immigrazione hanno solo da perdere. Anche sul fronte industriale, i legami sono forti, ma il peso della politica e dei regolatori è minimo. È il caso di Essilux, la fusione di successo negli occhiali tra i francesi di Essilor e gli italiani di Luxottica, ed è il caso di Stellantis, il gruppo automobilistico nato dalla fusione tra Peugeot e Fca. In Stellantis, lo Stato francese ha voluto mantenere una quota del 6 per cento per presidiare gl’interessi nazionali, a cominciare da sede operativa e stabilimenti locali. Lo Stato italiano invece ha come sempre lasciato campo libero agli Agnelli Elkann, non senza garantire fiumi di cassa integrazione e incentivi vari. Ma quello è un problema nostro e non si può darne colpa ai francesi.
Decisamente più strategica la partita che si gioca su Tim e sulla rete unica, dopo che il nuovo governo ha chiaramente affermato che le infrastrutture di rete nazionali devono rimanere sotto il controllo pubblico. Sul tappeto ci sono, al momento, due progetti. Uno prevede che una cordata guidata dalla Cassa depositi e prestiti rilevi la rete Telecom e la fonda con quella pubblica di Open Fiber. L’altro, che va sotto il nome di Piano Minerva ed è stato pensato dal sottosegretario all’Innovazione Alessio Butti, prevede che Cassa depositi e prestiti, Macquarie, fondo Kkr e Vivendi rilevino tutta Telecom con un’Opa (capitalizza appena 4,8 miliardi, ma ne ha 25 di debiti), la tolgano dal listino, fondano le due reti e vendano tutto il resto ai concorrenti. Fondamentale sarà il ruolo di Vivendi, colosso francese, che detiene il 24 per cento di Tim.
Ma sarà interessante anche vedere che spazio avrà Iliad, del finanziere francese Xavier Niel, nella eventuale spartizione delle attività retail di Telecom. Qui, sulla partita della Rete e dei telefoni, le carte le darà il governo Meloni. Ci sono altre due partite dove gli interessi francesi risultano concretissimi, ma stanno ben coperti. Una è nella vendita di Ita Airways da parte del Tesoro, dove nella cordata del fondo Usa Certares è presente, con Delta, anche Air France. L’altra è quella di Acciaierie d’Italia (la ex Ilva), dove Invitalia è socio di maggioranza di Arcelor Mittal. Su gran parte dell’informazione, televisiva e non, è passata l’abitudine di dire che il socio riottoso è indiano, ma in realtà si tratta di una multinazionale franco-indiana, quotata anche a Parigi. Con in più, un dettaglio non da poco: Lucia Morselli, roccioso manager di Acciaierie, non ha il classico profilo conciliante dei colleghi che presidiano gli affari francesi in Italia.