Viaggio nell’Italia repubblicana attraverso i manifesti che hanno scandito lo scontro elettorale dei partiti. Tra slogan geniali, promesse mirabolanti, ritratti «ritoccati» e, soprattutto, cambiamenti del costume.
Si parte da un mitra rosso della Resistenza, come quello che si inceppò davanti a Benito Mussolini a Giulino di Mezzegra. L’arma è in mano a un partigiano, l’immagine simboleggia il «Corpo volontari della libertà». La storia illustrata dell’Italia politica moderna comincia qui, con l’iconografia del dopoguerra firmata da Aldo Beldì, futuro grafico e pubblicitario di successo, autore dei caroselli con l’omino della caffettiera Bialetti. È un viaggio nel tempo, nell’arte, nel costume italiano che il sociologo Edoardo Novelli ha voluto fermare in un libro speciale, dal titolo I manifesti politici, storie e immagini dell’Italia repubblicana (Carocci Editore).
È l’Italia incollata ai muri, quella degli attacchini con il secchio della colla e dei comizi a colpi di slogan fra Democrazia cristiana e Partito comunista; il Paese delle conquiste civili, che apriva alle donne, ai referendum, e ogni cinque anni – per dirla alla Indro Montanelli – si turava il naso e votava Dc.
Dalla libertà alla «libertas» stampata sullo scudo crociato, da Amintore Fanfani a Silvio Berlusconi, fino alla canottiera di Umberto Bossi e alle trasformazioni fantasiose della falce e martello, destinata a scomparire dai manifesti prima che dalle biografie. La storia in 105 manifesti che ci fanno comprendere ciò che siamo.
Sembra strano, ma i più fantasiosi erano i democristiani. C’è un’immagine che spiega tutto: «Per l’avvenire dei vostri figli votate Dc» sembra dire una contadina con il volto della Madonna e un bimbo in braccio. Le elezioni del 1948 sono decisive, Peppone e don Camillo spopolano; come non ubbidire alla Vergine? Per chi è tentato di astenersi ecco un’immagine provocatoria: un asino in primo piano con la scritta «Astenersi dal voto può essere una viltà».
Negli anni Cinquanta compare per la prima volta Forza Italia in chiave anticomunista. Il manifesto è cinematografico, rappresenta due guantoni da boxe: il primo tricolore e l’altro rosso Cremlino. Rocky Balboa e Ivan Drago non hanno inventato niente e il Cavaliere non ha fatto altro che studiare la pratica. Il Pci, supportato dall’intellighenzia intellettuale, risponde con populismo protoleghista: «Via il regime della forchetta» contro il magna-magna del centrismo allargato. I partiti scoprono che grazie alla televisione l’Italia s’è innamorata del Festival di Sanremo. Allora il Pci lancia un manifesto con il volto di Fanfani: «Dal blu dipinto di blu, facciamolo scendere giù».
La Rai inaugura le tribune elettorali e i lavoratori inforcano la bicicletta sponsorizzata dai socialisti in un memorabile poster neorealista: «Loro non fanno la dolce vita». Siamo dentro il Sessantotto, anche sui muri si inizia a parlare di pacifismo e Vietnam, raffigurati con i teschi della paura nucleare e con una frase modificata dal De Agricola di Tacito (nientemeno): «Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace».
Dentro le immagini degli anni Settanta c’è una violenza cupa. Il volto di Gianni Agnelli colpito da una molotov, la «lotta continua» con un pugno in gola stile Zerocalcare, i manifesti clandestini con un’oscura promessa: «Il popolo si fa giustizia da solo». Nel 1974 compare la prima vignetta, è di Alfredo Chiappori per Avanguardia Operaia. Ma è la seconda a vincere la sfida: il mitico Jacovitti entra in scena a fianco della Dc con «Profumo di libertà».
La corsa verso la modernità ha ritmi forsennati. Cambiano gli stili, arriva l’ufficio facce (copyright di Beppe Viola). Tutti in primo piano sui poster politici: Bettino Craxi, Walter Veltroni, Romano Prodi, Silvio Berlusconi e la sua serie culminata con «Meno tasse per tutti». O per Totti? La Lega bossiana rappresenta il Nord come la gallina dalle uova d’oro rapinata da Roma e Fausto Bertinotti, con il suo infelice «Anche i ricchi piangano», fa perdere le elezioni al centrosinistra. C’è ancora il tempo di épater le bourgeois con la gigantografia di Marina Ripa di Meana nuda in versione animalista, poi assistiamo a un declino manifesto sotto i colpi di internet.
Oggi i social soffocano slogan e creatività. Si torna per l’ultima volta sul muro nel 2018, quando Luigi Di Maio e Matteo Salvini si baciano in una via di Roma, immortalati dallo street artist palermitano TvBoy. La storia che Novelli racconta deve ancora essere studiata a fondo dalla sociologia. Basti dire che la fine degli anni di piombo non avvenne con l’arresto dell’ultimo brigatista. Ma quando a Roma, su una parete dell’Università La Sapienza, gli studenti lessero: «Macché Lenin, macché Ingrao. È Falcao il nostro Mao».








