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Messico, tutti i narcos del Presidente

Messico, tutti i narcos del Presidente

Il leader messicano Andrés Manuel López Obrador si rallegra per il processo all’ex responsabile alla Sicurezza del precedente governo, Genaro García Luna, accusato di complicità criminali. Eppure, anche su di lui si addensano i sospetti di rapporti ambigui con i cartelli della droga.


Un ex ministro del Messico al servizio di narcos senza scrupoli. Non è la trama di una nuova serie di Netflix (sarebbe anche appassionante) ma la sintesi di un processo storico, in corso negli Stati Uniti. L’imputato è nientedimeno che Genaro García Luna, ex responsabile della pubblica sicurezza del Messico tra il 2006 e il 2012; e le carte processuali stanno a poco a poco svelando le oscure manovre e i legami viscerali tra i vertici della politica e i peggiori narcotrafficanti del Paese centroamericano.

L’attuale leader messicano Andrés Manuel López Obrador, noto con l’acronimo AMLO (il primo presidente di sinistra dai tempi della rivoluzione di Emiliano Zapata), ne ha approfittato per attaccare la (non) guerra contro i narcos di Felipe Calderón, il suo predecessore di destra, di cui Luna era ministro, ripetendo che prima del suo arrivo i cartelli della droga governavano il Messico. I fatti però raccontano altro. Lo stesso giorno in cui AMLO si diceva fiducioso che i legami di García Lula con i narcos sarebbero finalmente venuti alla luce, uno degli avvocati del Chapo Guzmán, narcotrafficante e capo del cartello di Sinaloa, rendeva pubblica una scandalosa lettera del suo assistito. In essa Guzmán chiedeva senza giri di parole «all’amico López Obrador» di fare quanto necessario perché potesse scontare la sua condanna in Messico.

Un pizzino in cui l’uomo responsabile della morte di migliaia di vite si lamentava del carcere duro negli Usa, dov’è rinchiuso dal 2019, condannato all’ergastolo. Eppure, grazie all’aiuto dei grandi media che presentano l’ex presidente Calderón come l’unico colluso con i narcos, gli indizi dell’alleanza politico-criminale tra AMLO e il Chapo passano in second’ordine. E sono tanti: a cominciare dai cinque pellegrinaggi in quattro anni di López Obrador a Badiraguato, nello stato di Sinaloa, per fare visita alla madre del Chapo, al Rancho La Tuna. Non solo i precedenti leader messicani non avevano mai messo piede nel feudo dei Guzmán Loera, 30 mila abitanti in mezzo al nulla, ma le ripetute interazioni del presidente con la 94enne María Consuelo Loera restano un mistero.

Scandalosa, in particolare, la visita del maggio 2022, quando il perimetro della sicurezza intorno a La Tuna fu garantito dagli sgherri del cartello di Sinaloa e non dalle autorità governative. Era presente anche Ovidio Guzmán, alias «El Ratón», uno dei figli del Chapo che oggi hanno ereditato il suo impero criminale? La domanda è lecita vista la politica degli «abbracci e non proiettili» nei confronti dei cartelli lanciata da AMLO il giorno del suo insediamento, il 1 dicembre 2018. Oggi il fallimento di tale strategia è attestato dai numeri: 144.684 omicidi in quattro anni e due mesi – il doppio degli omicidi sotto Calderón – e una violenza record, anche contro i giornalisti. Di certo, scrive Evan Ellis, professore di ricerca sull’America Latina presso l’Istituto di studi strategici dell’US Army War College, «le politiche e le azioni del presidente hanno mostrato un certo grado di favoritismo nei confronti del cartello di Sinaloa, in particolare nei confronti di «Los Chapitos», ovvero il clan guidato dai figli del Chapo. Basti pensare all’ordine di AMLO di «liberare» Ovidio Guzmán, già catturato nell’ottobre 2019 a Culiacán, la capitale dello Stato di Sinaloa.

Sebbene López Obrador ci abbia messo un anno per confessare di avere dato quell’ordine giustificandolo come «un tentativo di evitare ulteriori violenze contro i residenti della città», liberare un super boss non ha precedenti in Messico. Ma, soprattutto, si è inviato un segnale chiaro ai cartelli: l’uso della violenza estrema per rispondere all’arresto di un dei loro capi può costringere le forze di sicurezza a fare marcia indietro. Ovidio è stato di nuovo catturato lo scorso 5 gennaio, all’alba, alla vigilia di un’importante visita del presidente americano Joe Biden in Messico, e questa volta López Obrador non poteva certo ordinarne la liberazione, nonostante Culiacán fosse stata messa di nuovo a ferro e fuoco, come nel 2019. La sua amministrazione, comunque, sta cercando di evitarne l’estradizione negli Stati Uniti e ha già interposto una misura che sospende il suo possibile trasferimento nello stesso carcere del padre. Il tutto mentre il presidente messicano, a metà gennaio, ha risposto positivamente alla lettera del Chapo, affermando che la sua richiesta per motivi umanitari «sarà analizzata», e aggiungendo che «bisogna sempre lasciare la porta aperta quando si tratta di diritti umani». Del resto, già nel novembre 2022, il presidente aveva ammesso di aver ricevuto la richiesta da parte delle sorelle del super boss di incontrare il Chapo in prigione.

Un rapporto quindi forte, quello di AMLO con i vertici del cartello di Sinaloa. E confermato da altri episodi: il presidente, per esempio, ha ordinato ai suoi ministeri degli Interni e degli Affari esteri, oltre che all’Ufficio del Procuratore generale, di gestire con l’amministrazione Biden il rimpatrio del Chapo in Messico, come si evince da una delle missive della madre del boss María Consuelo Loera; la donna, rivela il giornalista Ricardo Alemán, già firma illustre del quotidiano La Jornada, lo ringrazia «per aver messo l’intero Stato messicano al servizio degli interessi del Chapo»,. Per non dire di quando AMLO ordinò che l’esercito proteggesse il matrimonio di una figlia del Chapo nella Cattedrale di Culiacán, cui parteciparono i vertici dei cartelli criminali del Paese.

Insomma, l’elenco degli indizi della benevolenza del presidente con i boss di Sinaloa è lungo, così come la lista delle sue azioni che hanno giovato ai narcos. Basti pensare alla legge sulla sicurezza del 2020 che ha avuto l’effetto di ostacolare in modo significativo la cooperazione tra forze dell’ordine messicane con la Drug Enforcement Agency, la statunitense Dea, ai cui agenti ha tolto l’immunità. Il presidente messicano ha peraltro chiuso, nell’aprile 2021, l’unità investigativa criminale speciale che lavorava a stretto contatto con l’agenzia antidroga, impedendo all’intelligence Usa di trasmettere informazioni ultra-sensibili alle loro controparti messicane. Anche il movente di AMLO nel cooperare con gli Stati Uniti, consentendo un’operazione contro Rafael Caro Quintero, fondatore del cartello di Guadalajara nel 1980 nonché conterraeno del Chapo, è sospetto. Il Cartello de Caborca, creato nel 2019, era infatti diventato un problema per Los Chapitos, i figli del boss, e il suo arresto ha giovato proprio a loro.

Altra azione discutibile di López Obrador è aver fatto cadere le accuse contro l’ex capo della Sedena (il ministero della Difesa messicano), il generale Salvador Cienfuegos, arrestato nell’ottobre 2020 negli Stati Uniti con prove dettagliate della sua collaborazione con i cartelli della droga. Su pressione di AMLO, dopo 33 giorni Washington aveva riconsegnato al Messico Cienfuegos, contro il quale sono state ritirate tutte le accuse, ma non solo: López Obrador aveva ordinato di pubblicare su Internet le 751 pagine sul caso fornite dal Dipartimento di Giustizia americano, mettendo a rischio le fonti della Dea. Da inizio gennaio, intanto, è la moglie di Ovidio, Adriana Meza, la «nuova regina del traffico di droga» in Messico, mentre Emma Coronel, la moglie del Chapo (con il quale ha avuto due figlie), è invece già con un piede fuori di prigione negli Stati Uniti. Emma, cittadina americana, ha infatti il diritto di usufruire di un programma speciale di reinserimento sociale che consente di uscire di giorno e tornare in carcere a dormire, sei mesi prima del rilascio definitivo (previsto per lei a fine settembre). La dinastia criminale può tranquillamente andare avanti.

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