Declamato nelle piazze con grande enfasi, del «rigore morale» dei 5 stelle resta ben poco. Oggi, per loro si moltiplicano le condanne (L’ultimo caso eccellente, l’ex pm piercamillo Davigo). E al declino nei tribunali segue quello nelle urne.
«Non esistono innocenti, solo colpevoli che l’hanno fatta franca». Incisa nella pietra con uno scalpello divino, trovata in una piramide minore tremila anni dopo la comparsa di Maat (dea egiziana della giustizia), la frase del gran sacerdote Piercamillo Davigo è il mantra del declino grillino. Tutto partì dall’«honestah», con tante acca, declamata nelle piazze con le piazzate, mentre il vaffa atomico pervadeva l’aria e gli adepti della setta destinata a farsi partito si preparavano ad aprire il Parlamento come una scatola di tonno. Questo nel 2016. Sappiamo com’è andata e adesso, ai titoli di coda, è proprio il contrappasso dei faraoni ad apparecchiare la comica finale: li stanno condannando tutti.
A cominciare dal Davigo medesimo e da quel suo annetto e tre mesi (in primo grado) per rivelazione del segreto d’ufficio sul caso del falso complotto Eni-Amara, «con l’unica legalità violata dal paladino della legalità nel salotto di casa sua», come da caustica requisitoria degli ex colleghi pm di Brescia. Un tonfo storico, una statuina in mille pezzi, seguita a domino da inchieste e condanne nel giugno nero del Movimento 5 Stelle, quando l’«onestà» ha perso le acca. Ha fatto scalpore anche la sentenza d’appello contro Chiara Appendino, un anno e sei mesi di pena (conferma dell’omicidio colposo, era sindaca di Torino) per i fatti di piazza San Carlo nel 2017. Durante la finale di Champions fra Juventus e Real Madrid, tra la folla che seguiva la partita sul maxischermo si scatenò il panico: due morti e 1.600 feriti provocati da quattro ladri teppisti già in carcere per 10 anni.
La responsabilità oggettiva del primo cittadino è improbabile, ma in casi simili i pentastellati avevano sempre chiesto – per gli avversari politici – la lapidazione pubblica con gogna mediatica. «Mi sono sempre difesa dalle accuse all’interno dei processi, senza timore e a testa alta, e continuerò a farlo». Frasi fatte, l’impatto politico è tangibile. Ora Appendino ha un ruolo chiave nel movimento: è deputata, responsabile della Scuola di formazione, in corsa per la nomina a vicepresidente e possibile successore di Giuseppe Conte (dopo Giorgia Meloni ed Elly Schlein la poltrona è donna ovunque). Si ipotizza la frenata, tutto bloccato almeno fino alla sentenza di Cassazione mentre il clima dentro il partito è teso per la solita questione dei soldi.
I parlamentari non hanno nessuna intenzione di donare i 2 mila euro da regolamento: solo il 37 per cento (30 eletti su 80) sta versando il consistente obolo nelle casse pentastellate. Inoltre c’è la consapevolezza di un declino che va oltre gli slogan ingialliti, riguarda la deriva gruppettara (Alessandro Di Battista riscuote ancora un certo appeal) e una volontà generica di cambiare che si scontra con l’istinto di sopravvivenza del peronismo contiano. Nel partito della legalità a singhiozzo e del moralismo giustizialista si naviga a quota periscopio aspettando l’ufficiale giudiziario. Il momento è catartico, perfino Luca Palamara si toglie qualche sassolino dalle scarpe: «Per una sorta di nemesi il giustizialismo si sta ora ritorcendo contro coloro i quali, dopo le elezioni politiche del 2018, ritenevano essere immuni da ogni iniziativa giudiziaria. L’idea dei Cinque stelle di flirtare con la corrente di Davigo si è rivelata un boomerang». Il fastidio non riguarda soltanto guru e parlamentari ma anche i burocrati di area, quella generazione di manager incorruttibili con il poster degli «Intoccabili» in cameretta, che avrebbero dovuto rinfrescare il Palazzo dall’aria viziata della partitocrazia.
Tutti acciaccati, si sono rivenduti anche la mazza da baseball. A far tremare le pareti del «grillismo tecnico» è stato l’arresto di Marcello Minenna, ex numero uno dell’Agenzia delle dogane, amministratore cresciuto in quota pentastellata e assessore della giunta di Virginia Raggi a Roma. Boiardo per eccellenza, portato in palmo di mano da Beppe Grillo e Luigi Di Maio (volevano metterlo a capo della Consob, l’autorità di controllo della Borsa), era diventato un guru del progressismo in economia, editorialista illuminato del Sole 24 Ore, così engagé da finire cooptato dal centrodestra nell’esecutivo della Regione Calabria. È crollato sull’ennesima inchiesta per approvvigionamento illecito delle mascherine in pandemia, quando a detta dell’accusa «non ha esitato a commettere reati al fine di rimuovere qualsiasi funzionario dell’Agenzia delle dogane che intendesse contrastare la sua gestione padronale di siffatta istituzione». In tutto ciò i reati ipotizzati «rappresentano l’espressione chiara della personalità criminale dell’indagato». Non una bella recensione, direbbe Nanni Moretti. Così il rigore morale della casa s’incrina fino a implodere e sfasciarsi come una vecchia torta di nozze. E l’elenco degli iscritti al registro degli indagati si allunga; i ragazzi del coro hanno le impronte digitali nel casellario giudiziario.
Minenna dopo il superconsulente Luca Lanzalone, consigliere di Di Maio e Casaleggio junior, uomo di fiducia di Virginia Raggi. Fu piazzato dall’ex sindaca a capo di Acea, la prima municipalizzata del Comune di Roma. La sua esperienza si concluse con le dimissioni dopo l’inchiesta della procura di Roma sul progetto del nuovo stadio a Tor di Valle: fu accusato di avere intascato una stecca da 100 mila euro dall’imprenditore Luca Parnasi, a sua volta arrestato con l’accusa di aver messo in piedi «un modello di corruzione sistemica per mettere a frutto il rapporto preferenziale con il Movimento 5Stelle». Il processo farà luce.
Non meno sfortunato Salvatore Romeo, ex capo della segreteria politica di Virginia Raggi, indagato per abuso d’ufficio, il reato più giacobino di tutti dominato dal fumus persecutionis, la punta di diamante del grillismo manettaro che oggi il ministro Carlo Nordio intende smantellare pezzo per pezzo. Fino all’ultimo, memorabile, Domenico Arcuri, gran visir di Invitalia in mascherina e Commissario straordinario per la pandemia nominato dall’allora premier Giuseppe Conte. A chi gli chiedeva che fine avessero fatto i dispositivi di protezione rispondeva: «Aspettiamo il marchio CE, la certificazione Iss, domani vediamo».
Avvezzo ai cocktail e alle cravatte di Marinella, l’ex marito della giornalista Myrta Merlino è stato travolto dall’inchiesta della procura di Roma per l’acquisto di 800 milioni di mascherine cinesi (1,2 miliardi di euro) ritenute «non conformi». La richiesta per il suo rinvio a giudizio con l’accusa di abuso d’ufficio si discuterà a settembre. Gli smottamenti progressivi del potere grillino hanno effetti scontati nelle urne, soprattutto nei territori, dove il buon amministratore dev’essere più affidabile che barricadero; la saggezza contadina in Italia ha ancora un senso. Così non è difficile notare che la diga sta perdendo acqua e gli elettori scappano a gambe levate senza passamontagna. In Molise la batosta (7,1 per cento) è fresca nonostante il campo largo con il Pd destinato a diventare camposanto. Ma nelle cinque precedenti uscite regionali i pentastellati avevano rimediato legnate in media dolorose: 2,4 per cento in Friuli, 3,9 p in Lombardia, 7,8 in Liguria, 6,5 in Calabria e 7,4 per cento in Umbria. Quantité négligeable, trascurabile, direbbero i francesi avviandosi verso le spiagge di Bretagna. Tanto rumore per nulla nell’estate dello scontento grillino, mentre l’ex ministro Alfonso Bonafede (quello che si credeva un disc-jockey al livello di Bob Sinclair) vede smantellare la sua riforma della Giustizia, creata con un autolesionismo senza paragoni per ammanettare i suoi, e appena intaccata dal brodino di Marta Cartabia. Dipingere Nordio come Satana mentre piccona l’abuso d’ufficio è l’ultima parodia di battaglia identitaria, un ritorno tardivo al moralismo giustizialista per coprire inadeguatezze politiche.
Sono settimane dure per l’anima grillina sudata, qui si perde in tribunale e nelle urne. Si perde anche la faccia a forza di condanne, senza più neppure il poster di Silvio Berlusconi al quale tirare le freccette. Allora torna alla ribalta la famosa frase di Pietro Nenni: «Gareggiando a fare i puri troverai sempre uno più puro che ti epura». Dopo l’Amara condanna, all’ideologo Davigo fischiano le orecchie, ma ormai è tardi. L’onestà senza un paio di acca non fa audience in Tv.