Mes, riforma del reddito di cittadinanza, inflazione, Pnrr e Manovra. Sono urgenti i provvedimenti che ne sterilizzino gli effetti. E, ancora, tra acciaio, compagnia di bandiera e banca pubblica sono aperte le grandi partite industriali, finanziarie e infrastrutturali. Per il governo di Giorgia Meloni il primo sarà anche l’anno delle decisioni difficili.
Anno nuovo, problemi vecchi. Ma non solo. Il cammino dell’Italia nel 2023 non è lastricato solo di dilemmi antichi, come se e quando piazzare a qualcuno il Monte dei Paschi di Siena o risolvere una volta per tutte il pasticcio dell’ex Ilva di Taranto. Per non parlare della privatizzazione dell’ex Alitalia. Ci sono anche grane più fresche, come il fatto che siamo l’unica nazione Ue a non aver dato il via libera al Mes (Meccanismo europeo di stabilità), il fondo salva-Stati che odora tanto di Troika e austerità alla greca. Oppure il mostro dell’inflazione, prezzo del gas compreso che, nonostante le fluttuazioni, per tutto l’anno ci terrà compagnia e influirà su tassi e politica economica.
La questione dell’anno alle porte potrebbe porsi così, per il governo guidato da Giorgia Meloni: cambiare tutto (il possibile) o gestire i problemi, spesso ereditati? Un bravo politico dalla lingua svelta se la caverebbe rispondendo che si possono cambiare le cose anche gestendo i dossier in modo nuovo. Intanto, come vedremo, sarebbe già qualcosa decidere, magari impugnando la bandiera dell’interesse nazionale, come sulla rete unica in fibra ottica.
Coincidenze sospette
A cavallo dell’Immacolata, i giudici costituzionali tedeschi hanno dato il via libera alla riforma del fondo salva-Stati, che a livello europeo arriva a 704,8 miliardi di euro. A questo punto, dopo la ratifica del Parlamento tedesco, l’Italia sarà l’unica nazione a non avere ancora approvato il Mes, con l’effetto di bloccarlo, da sola, per tutti. Di quella cifra dovrebbe sottoscrivere 125,3 miliardi e potrebbe richiederne 36 (ovvero il 2 per cento del totale). L’anno prossimo, il governo di Roma dovrà prendere una posizione, tenendo presente che Lega e Fratelli d’Italia sono sempre stati fieramente contrari, mentre Forza Italia appare indecisa. «Aderire al Mes» non significa automaticamente chiedere i soldi del Mes, questo è chiaro. Incaprettarsi non è obbligatorio. Per un Paese come l’Italia sarebbe pericoloso ricorrere a quei prestiti a tasso bassissimo, perché se poi c’è qualche intoppo nella restituzione si finisce nelle mani dell’Ue, con Bruxelles a dettarci direttamente la Manovra, voce per voce, numero per numero. Con tanti saluti alle scelte del popolo nelle urne. Ma attenzione alle coincidenze.
Nelle stesse settimane in cui si riapre la partita dell’adesione al fondo salva-Stati, sui grandi giornali parte la campagna sulla sanità pubblica senza soldi, con liste d’attesa interminabili e Pronto soccorso in sofferenza per la fuga dei medici. Ma come, la stessa sanità che ai tempi dell’emergenza Covid e delle campagne vaccinali di massa era santa e intoccabile, ora per i suoi stessi profeti diventa una groviera? E come si riempiono i buchi? Facile, con i soldi del Mes. Un nuovo metadone.
Freno a mano tirato
Nel 2023 l’economia italiana rallenterà, nonostante la spinta dell’inflazione. Secondo l’Istat, il Pil del 2022 chiuderà con un rialzo del 3,9 per cento sul 2021 e le ultime stime per l’anno prossimo parlano di un modesto, modestissimo recupero dello 0,4 per cento dopo gli anni neri del Covid. A novembre, la corsa dei prezzi ha segnato un balzo dell’11,8 per cento e per l’intero 2022 dovrebbe attestarsi a un +8,1 per cento. Per l’anno che sta per iniziare, la Bce prevede un’inflazione nell’eurozona al 5,5, ma dai sondaggi preventivi di Francoforte risulta già un incremento del 5,8 per cento. A trainare i prezzi saranno sempre i prodotti dell’energia non petroliferi e gli alimentari, specialmente se freschi. In un contesto di moderazione salariale (diversamente si rischierebbe altra inflazione), per venire incontro ai propri cittadini il governo continuerà a spingere sulla riduzione del cuneo fiscale e a fornire aiuti sulle bollette. La coperta 2023? Se non si cresce più del previsto sarà corta. E bisogna sperare nella pace in Ucraina anche per motivi assai concreti.
Il cuscinetto anti-povertà
Il Reddito di cittadinanza, questo governo lo avrebbe volentieri abolito fin da subito: troppi abusi e un messaggio sbagliato a chi dovrebbe cercare davvero lavoro. Ma anche Bankitalia prevedeva il rischio di un milione di poveri in più, in caso di abolizione drastica di un sussidio che oggi va a 1,6 milioni di persone. Il reddito caro ai grillini andrà in soffitta solo nel 2024, sostituito con misure specifiche di aiuto ai realmente bisognosi. Per il 2023, il governo di centrodestra ha solo deciso di portare da 12 a 8 mesi il sostegno per cercare di avviare le persone occupabili a un lavoro, accompagnandole con corsi di formazione obbligatori. E il sussidio verrà perso già dopo la prima offerta «congrua» rifiutata. Insomma, sarà un 2023 di transizione (e di polemiche), per un istituto che non era facile da smontare in quattro e quattr’otto mentre si predisponeva in gran fretta una Finanziaria e su cui è stato comunque risparmiato un miliardo, su 8 di costo totale.
Telenovela unica
La Rete unica ultraveloce per internet la prometteva già Matteo Renzi da premier, nel 2014. Ma il problema, come sta emergendo in queste settimane, è il riassetto della Telecom privatizzata. Lo scorso 25 ottobre, presentando il suo programma alla Camera, Meloni è stata netta: «Intendiamo tutelare le infrastrutture strategiche nazionali assicurando la proprietà pubblica delle reti, sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni». E il sottosegretario all’Innovazione, Alessio Butti, ha parlato esplicitamente di due problemi concretissimi, ovvero il debito di Tim, arrivato a 32,6 miliardi, e i possibili esuberi sui 42 mila dipendenti in Italia. I sindacati ne temono 10 mila almeno. Ora si studierà se fare una fusione tra Open Fiber e la rete Telecom, per poi procedere a uno spezzatino del gruppo privato, o se lanciare un’Opa parziale su un gruppo che in Borsa capitalizza 4,2 miliardi, sempre coinvolgendo la Cassa depositi e prestiti, Vivendi (azionista Tim al 24 per cento) e i fondi esteri Kkr e Macquarie. In ogni caso, il 2023 non potrà che essere l’anno buono per risolvere un problema su cui hanno dormito troppi governi. Quel maxi debito va diviso in qualche modo.
La transizione no
L’aspetto paradossale dell’ex Ilva di Taranto è che dopo 10 anni in cui è successo di tutto, tra confische alla famiglia Riva e intromissioni varie della magistratura, ora il 2023 dovrebbe essere un anno di transizione. L’impianto è affidato a una holding, Acciaierie d’Italia, che vede la pubblica Invitalia al 38 per cento e la multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal al 62 per cento. A maggio di quest’anno, il governo Draghi ha concesso ai privati stranieri una proroga di due anni per rivedere la «governance» e andare in minoranza. Intanto, l’impianto produce a ritmi ridotti, è in difficoltà per la bolletta energetica e ha bloccato i pagamenti a decine di fornitori. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, comprensibilmente non vuole un altro anno nella palude, e dopo lo stanziamento pubblico da due miliardi chiede ai privati un’adeguata ricapitalizzazione. Tanto perché non venga il sospetto che l’interesse di Arcelor Mittal per Taranto fosse solo quello di tagliare la strada ai concorrenti. Intanto non sono stati mai versati dall’impresa franco-indiana i 4 miliardi di euro di investimenti previsti dalla gara assegnata dal Mise ai tempi di Carlo Calenda.
Una Zavorra in volo
Cambiare nome ai problemi non sempre è sufficiente. Ita Airways è la nuova Alitalia, è di proprietà di tutti noi (attraverso il Tesoro) e perde oltre un milione di euro al giorno pur gestendo una flotta dimezzata. Con il precedente governo, c’è stata una folle lite sul venderla ad Air France o a Lufthansa. Il nuovo governo, a cominciare dal ministro Giancarlo Giorgetti, preferirebbe i tedeschi e si sta cercando per loro un partner industriale sul modello di Ferrovie dello Stato. I contribuenti hanno appena versato 400 milioni di aumento di capitale, che fanno parte di 1,35 miliardi autorizzati dall’Ue. Se a marzo non sarà stata venduta, Ita Airways ci costerà altri 250 milioni di euro. Certo, sarebbe una mossa saggia non venderla a qualcuno che può avere interesse ad affossare l’Italia come destinazione turistica. I francesi, per esempio.
Nazionalizzare, Ma a tempo
Il 2023 sarà l’anno in cui lo Stato italiano dovrà gestire anche la raffineria di Priolo, in Sicilia, di proprietà del colosso petrolifero russo Lukoil. Qui il governo è intervenuto con un decreto d’urgenza lo scorso primo dicembre, perché dal 5 dicembre è scattato l’embargo sul petrolio di Mosca, e Priolo, che soddisfa il 20 per cento del fabbisogno italiano, si sarebbe fermata. In questo anno una gestione commissariale si occuperà della raffineria, mentre le banche d’affari aiuteranno a trovare un compratore americano, o comunque occidentale. Secondo il quotidiano Financial Times, il polo di Priolo può valere fino a 1,5 miliardi di euro. I 12 mesi fissati dal decreto sono rinnovabili una volta, ma tutti sperano che non serva.
Un monte di problemi
E sarebbe un sogno se un «decreto Priolo» si potesse concepire anche per uscire dal Monte dei Paschi di Siena, banca della quale lo Stato detiene ancora il 64 per cento. Il salvataggio dell’istituto va in scena ininterrottamente dal 2012 e ha richiesto oltre 30 miliardi di euro, tra aumenti di capitale e contributi pubblici iniettati d’urgenza per non portare i libri in tribunale. A fine ottobre, è andato in porto (con fatica) un aumento di capitale da 2,5 miliardi, ma la capitalizzazione di Borsa di Mps è già inferiore ed è pari a 2,2 miliardi. Ora l’impegno con l’Europa è quello di trovare una banca privata che si accolli il Monte, magari dividendosi le filiali con altri due istituti. Ma sullo sfondo, anche per questo 2023, resta un interrogativo: con tutti i soldi che lo Stato italiano ha messo su Siena, a cominciare da quei 5,5 miliardi per rilevare il 64 per cento, perché svendere a qualcuno una banca risanata? La sfida, forse, è trovare una nuova missione per Mps, come il servizio alle piccole e medie imprese. Ma certo, come per il Mes, tocca andare a puntare i piedi a Bruxelles e fare i conti con il fuoco amico di un’opposizione sempre euroentusiasta.