Eletto con quasi il 56 per cento dei voti, sarà questo istrionico (e assai discusso) outsider della politica a governare. Ammesso che riesca a farlo davvero, in una situazione economica più che disastrosa.
Il 10 dicembre l’economista liberale e libertario Javier Milei si insedia alla Casa Rosada come dodicesimo presidente dell’Argentina dalla fine della dittatura militare, 40 anni fa. L’unica certezza è questa, ma la domanda che tutti si fanno a Buenos Aires è: riuscirà a salvare l’Argentina in crisi nera e a concludere il suo mandato? Di sicuro sarebbe già un mezzo miracolo che arrivasse fino al 2027. E non perché i media internazionali progressisti lo hanno bollato come «di estrema destra» e «matto» per screditarlo, ma perché ce lo dice la storia recente del paese del tango.
Dal 1955, infatti, solo un non peronista, Mauricio Macri oggi alleato di Milei, ce l’ha fatta a rimanere alla Casa Rosada per i quattro anni previsti dalla costituzione. Arturo Frondizi venne rovesciato da un golpe militare nel 1962. Stessa sorte toccata ad Arturo Ilia nel 1966. Raúl Alfonsín dovette lasciare il potere al peronista Carlos Menem con sei mesi d’anticipo a causa dell’iperinflazione. Fernando de la Rúa fu obbligato a fuggire in elicottero dalla Casa Rosada, a fine 2001, per evitare una folla imbufalita perché – a suo dire – «sobillata dal peronismo», ma soprattutto per il caos finanziario scatenatosi per la chiusura dei rubinetti del credito da parte del Fondo monetario internazionale. Il 53enne Milei lo scorso 19 novembre ha stravinto le presidenziali in Argentina con il 55,69 per cento sul 51enne peronista/kirchnerista Sergio Massa, quasi tre milioni di voti in più. Solo «el General» Juan Domingo Perón e Hipólito Yrigoyen, nel 1928, presero più preferenze in percentuale.
È dunque chiaro che gli elettori non hanno fatto caso né ai precedenti funesti dei presidenti «non peronisti», né letto i giornali progressisti, né si sono fatti influenzare dai sondaggi che davano tutti un «pareggio tecnico». Di fatto gli elettori del Paese del tango non hanno seguito il detto argentino «è meglio un cattivo conosciuto che un buono sconosciuto» e hanno scelto il carneade Milei, che sino a due anni fa non aveva neanche creato il suo partito «La Libertad Avanza», propugnatore di ricette economiche della scuola austriaca di Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, ovvero uno Stato minimo.
A spiegare a Panorama il perché di questa scelta è l’argentino Héctor Schamis, professore presso il Centro di studi latinoamericani della Georgetown University. «Di fronte alla certezza offerta da Massa, ai suoi trascorsi come ministro dell’Economia, all’inflazione fuori controllo, alla povertà crescente, alla disoccupazione, al boom del lavoro nero e alla corruzione, era razionalmente logico abbracciare l’incertezza dell’ignoto. Perché quello che già conosciamo bene noi in Argentina è un vero disastro». L’inflazione, oggi al 143 per cento, dovrebbe infatti arrivare almeno al 200 per cento entro fine anno a detta degli analisti ma, secondo Carlos Maslatón, guru finanziario che si definisce «non convenzionale» e sino a un paio di anni fa molto vicino a Milei (con cui da allora è in rotta per una lite con la dura sorella del neo presidente) «salirà al 300 per cento e poi crollerà. Ma ora sta crescendo perché si devono riallineare le distorsioni dei prezzi». Riaggiustare i prezzi è una delle priorità dichiarate da Milei in un paese dominato dallo Stato, che ha imposto come ricetta per combattere l’inflazione proprio il controllo dei prezzi, a cominciare da quello del cambio tra peso argentino e dollaro. Un disastro che, invece di sconfiggere gli aumenti, ha causato – al pari di tutti gli altri esempi nella storia a cominciare dall’ex Unione Sovietica – il prevedibile effetto contrario oltre a un boom del mercato nero, alla fuga di molte aziende straniere, a una contrazione senza precedenti del settore privato e a una scarsità di tutti i prodotti «a prezzi controllati».
Non a caso oggi gli argentini usano i dollari per risparmiare ma anche per le compravendite immobiliari. Anche per questo Milei vuole dollarizzare e pensionare il peso, trasformatosi quasi in carta straccia. Tra i suoi supporter c’è Steve Hanke, professore di economia applicata alla Johns Hopkins University di Baltimora e direttore del Troubled Currencies Project presso il Cato Institute di Washington. «L’Argentina deve dollarizzare per risolvere i suoi problemi. Storicamente i Paesi che lo hanno fatto hanno ottenuto tassi di inflazione più bassi, deficit fiscali più piccoli, livelli di debito minori rispetto al Pil, meno crisi bancarie e tassi di crescita reale più alti in confronto a Paesi comparabili che invece hanno lasciato mano libera alle banche centrali» dice Hanke che, tra il 1989 e il 1991, su incarico del presidente Carlos Menem, lavorò con il Parlamento argentino per sviluppare un progetto di un currency board che poi non andò in porto.
Già sul finire del 1991, Hanke espresse le sue preoccupazioni sui difetti del sistema di convertibilità argentino; con il passare del tempo le sue critiche divennero sempre più severe, ma nessuno a Buenos Aires gli fece caso. Il risultato fu che il 6 gennaio 2002 il paese del tango abbandonò il sistema della convertibilità e il peso argentino fu svalutato pesantemente nei confronti del dollaro. «Non fu però l’unico danno associato alla fine del sistema di convertibilità» precisa Hanke. «Sebbene non fosse un currency board, la maggior parte degli economisti lo identificò come tale e la confusione nei circoli politici generata da questa falsa narrazione rimane ancora oggi significativa». Per evitare i problemi del 2001 Milei vuole dollarizzare e, per farlo, l’appoggio di Hanke potrebbe risultare decisivo. Anche perché l’inflazione insieme a una moneta nazionale che non vale quasi più nulla colpisce soprattutto i più poveri, quelli che guadagnano in pesos sul mercato informale.
Ed è questo l’altro grave problema che Milei dovrà affrontare: ovvero quel 40 per cento della popolazione argentina che oggi vive in povertà e quel 10 per cento in miseria. «Un disastro implementato da Massa, aggravatosi in questi ultimi due anni in cui il presidente di fatto in carica era lui. Non c’è dubbio su cosa sia razionale e, in tal caso, razionale è stato votare per qualcuno che non conosciamo, un outsider come Milei. È molto esplosivo e imprevedibile? Ok, ma la cosa di certo prevedibile è quanto ci lasciano i peronisti nella variante kirchnerista. Un disastro. Il voto del 19 novembre è stato un referendum su di loro ed è stato chiaro: non si può ingannare l’elettore così tante volte in questo modo» afferma Schamis. Difficile dire se Milei ce la farà. Quando il kirchnerismo tornò al potere nel 2019 dopo la parentesi Macri, con mille pesos argentini si intascavano oltre 14 dollari mentre oggi non si arriva neanche a un dollaro al cambio nero. Un’erosione di valore superiore a quella del Venezuela. Inoltre le riserve della Banca Centrale, che Milei vuole abolire, sono in deficit di 10 miliardi di dollari.
L’impresa di salvare l’economia è dunque titanica, anche perché l’establishment peronista che gestisce gran parte della macchina dello Stato e finanzia sindacati e movimenti sociali ha già minacciato il sangue nelle strade. Non appena Milei ha detto di voler privatizzare Aerolineas Argentinas, compagnia di bandiera che perde un milione di euro al giorno, Pablo Biró, il capo del sindacato dei piloti, ha dichiarato che «se lo fa dovrà passare sui nostri cadaveri». In Parlamento, Milei non ha la maggioranza e dovrà per forza di cose imbastire alleanze per riuscire a governare mentre sul fronte internazionale il suo primo viaggio all’estero, precedente al suo insediamento, sarà negli Stati Uniti e in Israele.