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Giustizia, tutti fermi alla grande riforma

Giustizia, tutti fermi alla grande riforma

L’«opposizione giudiziaria» al governo denunciata dal ministro della Difesa Guido Crosetto riaccende il contrasto tra magistratura e politica. La vera posta in gioco, però, è il rinnovamento di un ordine intoccabile – dalle «pagelle» alle carriere, alle intercettazioni – a cui lavora il Guardasigilli Carlo Nordio. Un’azione boicotatta dagli interessi di categoria. E non solo.


Se dice il giusto Guido Crosetto, ministro della Difesa e fondatore di Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni, «l’opposizione giudiziaria» di cui ha parlato il 26 novembre al Corriere della Sera deve fare davvero paura alla maggioranza. Il ministro ha descritto «riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la deriva antidemocratica cui ci porta la Meloni». E ha sottolineato che, per l’esecutivo di cui fa parte, il primo pericolo è proprio «l’opposizione giudiziaria, che da sempre si sente fazione antagonista e sempre ha affossato i governi di centrodestra». Da quando Crosetto le ha pronunciate, le sue parole hanno condizionato il dibattito politico, con uno strascico di illazioni sui possibili retroscena e di repliche stizzite da parte dei magistrati sindacalizzati. Gli ha replicato Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: «I magistrati non sono eversori, da Crosetto parole inaccettabili». A poco è servito che il ministro cercasse di ridimensionare l’intervista, garantendo che non era stata concordata con la premier. Le sue frasi hanno riacceso lo scontro con il potere giudiziario, e fatto balenare l’idea che qualche Procura si prepari a una mossa spettacolare da qui alle elezioni europee di giugno. Un colpo di scena, in effetti, non è improbabile: è già accaduto, purtroppo, che la giustizia italiana rispondesse a logiche politiche.

Molti, però, pensano che il vero retroscena della «bomba» lanciata dal responsabile della Difesa sia un altro, e attenga più alla riforma della giustizia, cui il sindacato delle toghe ha dichiarato guerra. Nella maggioranza si contrappongono due linee. Da una parte c’è chi crede nella grande riforma garantista come unico argine possibile allo strapotere della magistratura, soprattutto di quella inquirente e delle sue fazioni più «ideologizzate» e militanti. Dall’altra parte c’è chi, per propensione giustizialista o più banalmente per calcolo, non ha alcun desiderio d’imbarcarsi in nuovi conflitti con un ordine giudiziario che continua a imbracciare come un’arma i suoi super-poteri, per di più potenziati da giornali e tv di sinistra. Tutta l’attività del governo Meloni mostra con chiarezza l’esistenza di questa doppia anima. La denunciano i continui «stop-&-go» imposti alle riforme (grandi e piccole) del Guardasigilli. E non accade mai che la maggioranza metta al riparo Carlo Nordio dal fuoco di sbarramento che si scatena ogni volta che propone un’idea garantista. Certo, Forza Italia (soprattutto) e la Lega (con qualche distinguo) sembrano essergli più vicine. Fratelli d’Italia, invece, continua a essere molto più «manovriera», e questo malgrado il ministro ex magistrato sia stato candidato alla Camera proprio nelle sue liste, per volontà espressa di Giorgia Meloni.

È stato anche per questa doppia anima governativa se l’11 novembre Nordio ha malinconicamente dovuto annunciare il rinvio della separazione della carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, la riforma che è una vecchia battaglia garantista del centrodestra e nell’autunno 2022 campeggiava al terzo posto nel programma elettorale. A fine mese ha comunque negato che la sua riforma sia «bloccata» e ha promesso che «in primavera comunque la porteremo in Consiglio dei ministri». Poi ha aggiunto che «almeno finché sarò ministro, queste riforme andranno avanti». Ma il suo, di fatto, è un rinvio a data da destinarsi. Non è stato nemmeno il primo stop alla riforma. Già in autunno il governo aveva appunto frenato la separazione delle carriere, in discussione in Parlamento con un autonomo progetto di legge: l’esecutivo ne aveva chiesto il blocco, annunciando un suo disegno di legge che però non è mai arrivato. Molti hanno parlato di un imbroglio. Non è andata meglio alla revisione dell’abuso d’ufficio, firmata sempre da Nordio e da mesi ferma in commissione al Senato. Ma il Guardasigilli ha subìto altri «impallinamenti», e sempre è rimasto solo. È avvenuto in luglio, quando ha chiesto norme più precise per definire il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, rilanciando un’idea cui è favorevole la maggioranza dei penalisti e gran parte dei giuristi. Per quell’idea, Nordio è stato addirittura accusato di favorire le organizzazioni criminali. Certo non gli è stata d’aiuto la smentita venuta da Alfredo Mantovano, come Nordio ex magistrato e oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio: «Modificare il concorso esterno non è in discussione», ha dettato Mantovano alle agenzie, «e il governo non farà alcun passo indietro nella lotta alla criminalità organizzata. Ci sono altre priorità».

Sempre nella scorsa estate, Nordio ha lanciato anche la saggia idea di una riforma delle intercettazioni, riducendo la spesa (oltre 200 milioni di euro) di quelle «più inutili, sui reati minimi dei cittadini normali», e aumentando la strumentazione tecnologica contro la criminalità organizzata, che ormai si fa beffe perfino dei trojan più sofisticati. Il procuratore generale antimafia Giovanni Melillo, che per il suo ruolo avrebbe dovuto apprezzare l’idea, ha risposto a brutto muso che «non esistono intercettazioni inutili». E nel governo, ancora una volta, nessuno ha difeso il Guardasigilli. Non è sembrato quindi un caso se, pochi mesi dopo, Giorgia Meloni e Mantovano hanno portato Nordio a un incontro con Melillo e con i 26 procuratori distrettuali. Era il 15 novembre, e un vertice così importante non s’era mai visto nella storia, tanto che all’inizio le correnti della sinistra giudiziaria avevano quasi storto il naso. La diffidenza, però, si è stemperata quando la presidente del Consiglio ha lanciato alle toghe un caldo «invito a collaborare»: «Anche se talvolta c’è disaccordo con la politica», ha detto, «questo non si deve mai trasformare in uno scontro tra poteri». Parole accomodanti, insomma. Proprio come quelle consegnate cinque giorni prima al congresso di Magistratura democratica da Ignazio La Russa, presidente del Senato e uomo ai vertici di FdI. Non era mai accaduto che la seconda carica dello Stato partecipasse al dibattito delle «toghe rosse». La Russa ha inanellato appelli alla «concordia», a «un confronto sereno e scevro da pregiudizi», a «mettere da parte ogni preconcetto». All’uscita, a un cronista che gli chiedeva se il suo intervento dovesse essere interpretato come «segnale di pace», La Russa ha risposto: «Mai stati in guerra!».

Sarà prudenza, chissà: la stessa che sembra trasparire dalle parole di Crosetto. O forse è strategia, calcolo. È probabile sia anche effetto della «moral suasion» del Quirinale, che di rado fa mancare l’appoggio al fronte giudiziario. O magari è il legittimo desiderio del governo, che non vuole nuove guerre quando già deve vedersela con la difficile situazione economica e con un’Europa non proprio amichevole. Quel che salta agli occhi, però, è che nel campo della giustizia la linea tracciata dall’aratro del centrodestra non è proprio drittissima. Anche perché nella maggioranza, ogni tanto, emerge l’irritazione per gli eccessi della magistratura militante e per il suo essere in certi casi troppo schierata «contro»: è accaduto in ottobre, quando la giudice catanese Iolanda Apostolico non ha convalidato il fermo di quattro tunisini che chiedevano asilo, disapplicando il decreto Cutro sull’immigrazione, e poi la sua faccia è apparsa nei video delle manifestazioni che nell’estate 2018 pretendevano lo sbarco dei migranti dalla nave Diciotti, bloccata in porto da un decreto dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. La stessa Meloni ha usato toni duri contro la magistratura il 7 luglio, quando il tribunale di Roma ha deciso l’imputazione coatta del viceministro alla Giustizia, Andrea Del Mastro, accusandolo di avere rivelato segreti d’ufficio sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito (il sottosegretario è stato poi rinviato a giudizio il 29 novembre scorso). Quel giorno un comunicato di Palazzo Chigi ha posto la questione delle questioni, rimproverando a «una fascia della magistratura» di avere «scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione, e deciso d’inaugurare la campagna per le elezioni europee». Più che la bilancia, insomma, il simbolo della giustizia in Italia è il pendolo: oggi tra i politici prevale la paura, e quindi è pace; domani domina l’irritazione, e allora è guerra.

C’è una sola certezza: il conflitto non finisce qui. Enrico Costa, deputato di Azione in commissione Giustizia, spera che «la separazione delle carriere torni presto nel calendario della discussione in Parlamento». E la magistratura militante è già sulle barricate contro l’ultima proposta uscita dal Consiglio dei ministri, che vuole affidare al Consiglio superiore della magistratura il compito di stilare una «pagella» sull’attività di giudici e pubblici ministeri. L’idea è inoffensiva, e non servirà a responsabilizzare le toghe, ma è facile prevedere che per mesi sarà il nuovo «casus belli». La vera riforma della giustizia, intanto, attende nei cassetti.

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