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Una strana coppia d’acciaio

Una strana coppia d’acciaio

Per il salvataggio di Acciaierie d’Italia, a Taranto, il presidente Franco Bernabè e l’ad Lucia Morselli hanno approcci diversi al Piano di decarbonizzazione necessario, in cui il governo deve mettere una «fiche» miliardaria. Intanto, la produzione del colosso siderurgico continua a diminuire.


Solo un destino cinico e baro poteva mettere l’ex Ilva nelle mani di due personaggi così diversi tra loro quali Franco Bernabè e Lucia Morselli. Il presidente e l’amministratrice delegata di Acciaierie d’Italia (AdI) non vanno d’accordo su nulla e ormai si affrontano a colpi di lettere al governo, che puntualmente filtrano sui giornali. Sullo sfondo, il tema della riconversione «carbon free» di Taranto e la nazionalizzazione definitiva di Acciaierie, prevista in teoria per maggio del 2024. Il governo pensa a un’operazione a tempo, solo per raddrizzare la baracca. Ma 11 mesi sono lunghi e per stanare i soci di minoranza franco-indiani di ArcelorMittal l’esecutivo di Giorgia Meloni ha chiesto un nuovo piano industriale. Almeno, con cifre e investimenti sul tavolo; prima di aprire ancora una volta il portafogli dei contribuenti si capirà se tutti remano dalla stessa parte.

Lo scontro al vertice di Acciaierie deflagra il 12 maggio scorso, quando il presidente di Dri (la controllata della pubblica Invitalia per decarbonizzare l’acciaio) Bernabè scrive una lettera a ben quattro ministri: Raffaele Fitto, Gilberto Pichetto Fratin, Adolfo Urso e Giancarlo Giorgetti. Nella missiva, come ha raccontato il quotidiano La Verità del 24 maggio, si fa il punto sul progetto del «preridotto» (un modo alternativo di produrre ferro, sviluppato per superare le difficoltà degli altiforni convenzionali). Alla fine, c’è il siluro: «Le diversità di assetto azionario tra Dri d’Italia e Acciaierie d’Italia comportano oggettive difficoltà nel coordinamento tra rispettivi piani industriali, per la cui risoluzione risulta indispensabile un attivo dialogo tra azionista pubblico e privato». In sostanza, si chiede al governo di mettere mano alla governance e risolvere l’ambiguità societaria, che vede Acciaierie controllata al 62 per cento da ArcelorMittal e al 38 da Invitalia. Il fatto incredibile è che Bernabè, scelto e stimato da Mario Draghi, è contemporaneamente presidente di Dri e di AdI: quindi scrive anche a sé stesso.

La reazione della modenese Morselli, 66 anni e allieva del «kaiser» degli amministratori delegati Franco Tatò, è durissima e arriva il 29 maggio con una lettera a Dri, spedita per conoscenza anche ai ministeri di Adolfo Urso e Raffaele Fitto, in cui si respingono tutte le accuse e si passa al contrattacco. «Dri si smentisce nei fatti continuando pervicacemente a rifiutarsi di condividere con AdI la propria relazione tecnica sul Progetto» si legge nella risposta.

Ovviamente, Morselli manda la lettera pure a Bernabè, il «doppio» presidente. Una telefonata per chiarirsi e lavorare nel comune interesse? Magari c’è stata, ma non subito. Il giorno dopo, ecco una nota ufficiale di Dri che manifesta «stupore» per la diffusione della lettera della Morselli «contenente affermazioni in totale contrasto con le norme che definiscono le modalità di intervento dello Stato nel processo di decarbonizzazione dell’acciaio e con potenziali ricadute negative sulla sua attuazione». La società pubblica, con l’occasione, conferma che «continuerà a lavorare per rispettare i tempi del Pnrr che prevedono la realizzazione dell’impianto di preridotto entro giugno 2026».

A fine gennaio Bernabè era andato in Senato a spiegare l’ultimo piano per la decarbonizzazione. In una prima fase, da concludere entro il 2025, si prevede un investimento da oltre un miliardo di euro, destinato a salire per effetto dell’inflazione. La seconda fase va dal 2024 al 2027, con un investimento da 2,4 miliardi. La terza sarà realizzata fra il 2027 e il 2029 con 1,2 miliardi; poi si arriva alla quarta e ultima fase da un miliardo. In totale, 5,6 miliardi in 9 anni, che annunciati da un signore di 74 anni sono un discreto atto di fede.

Ma l’ex presidente di Eni e Telecom ha dimostrato nei decenni di saper navigare in qualsiasi mare e in quell’audizione a Palazzo Madama si concesse anche parole eleganti quando affermò: «Do atto all’amministratrice delegata Lucia Morselli di aver condotto l’azienda in una situazione di grande drammaticità. La situazione di Acciaierie d’Italia è assolutamente più complessa di tutte quelle che io ho vissuto in precedenza». E in effetti, vale la pena ricordare che il 13 dicembre del 2021, all’epoca del governo Draghi, il felpato Bernabè e la spigolosa Morselli erano andati dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, a esporre un piano di completa decarbonizzazione che costava 4,7 miliardi in dieci anni, con il ritorno alla piena occupazione dei lavoratori entro il 2025. In sostanza, si trattava di passare dal carbone all’idrogeno, con l’uso solo di forni elettrici.

Purtroppo le cose stanno andando un po’ diversamente. Lo scorso 26 maggio, pochi giorni prima che tra Bernabè e Morselli volassero gli stracci, il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, approfitta del palco dell’assemblea annuale di Genova per fare un bilancio sconsolante. «A oggi non ci sono novità per Acciaierie d’Italia», osserva Gozzi, «il confronto fra governo e Mittal non è risolto. È una constatazione e il tema è il piano industriale e la sua attenzione».

Poi però il numero uno dell’organizzazione che fa parte di Confindustria aggiunge qualche spiegazione: «Per arrivare alla definizione del piano, anche abbastanza scontata perché le cose che si devono fare sono chiare, ci vuole la collaborazione dei soci, l’assunzione di responsabilità finanziaria e la contestuale assunzione di responsabilità manageriale, perché poi, come in tutte le aziende, bisogna decidere chi comanda». Detta brutalmente, i soci devono cacciare i soldi e bisogna risolvere la strana diarchia. Acciaierie, ramo Morselli, non ci sta a salire sul banco degli imputati perché sostiene di aver investito oltre due miliardi tra novembre 2018 e la fine dello scorso anno e senza che sia stato erogato un singolo euro di incentivi pubblici agli investimenti. In compenso, anche questo governo ha finanziato il prolungamento della cassa integrazione straordinaria per circa 3 mila lavoratori fino alla fine dell’anno.

Resta il fatto che nel 2021, lo stabilimento di Taranto di Acciaierie d’Italia ha prodotto quattro milioni di tonnellate di acciaio, scese a 3,1 nel 2022 (16 per cento dell’intera produzione italiana) nonostante l’obiettivo di inizio anno fosse a quota 5,7 milioni. È ancora presto per dire che cosa deciderà l’esecutivo sull’aumento delle quote di Invitalia in Acciaierie, anche perché se prima si parlava di un miliardo di euro per liquidare i franco-indiani, ora girano stime sul miliardo e mezzo. L’antico sospetto, che serpeggia tra i sindacati e un po’ in tutti i partiti, è che ArcelorMittal tutto sommato non si strappi i capelli a vedere che la conversione di Taranto vada così a rilento perché il suo vero interesse, fin dal 2018, sarebbe impedire che l’ex Ilva finisca in mano ai concorrenti.

Nei giorni scorsi, dopo l’ultimo scambio di lettere tra Morselli e Bernabè, Adolfo Urso è uscito allo scoperto. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy ha confermato di aver chiesto «un piano industriale confacente alle ambizioni del nostro Paese alla possibilità di realizzare a Taranto la più grande acciaieria green d’Europa». Ma come, non c’era già il piano presentato da Bernabè il 31 gennaio in Senato? Par di capire che il governo ne aspetti uno nuovo di zecca nei prossimi giorni e che poi assumerà le sue decisioni.

Intanto, restano sul tavolo le anomalie. La doppia poltrona di Bernabè è un incrocio bizzarro e un giorno o l’altro il governo potrebbe risolverlo. Poi, certo, ci sono gli scontri tra due manager che probabilmente non sono solo figli di una governance da rivedere, ma di caratteri incompatibili. Il problema principale resta la società tra lo Stato e ArcelorMittal, che non sembrano avere gli stessi obiettivi. L’Italia potrebbe provare a liquidare il socio privato e gestirsi da sola la conversione di Taranto, per poi rimetterla sul mercato. Ma dopo quello che è capitato alla famiglia Riva, farsi avanti per l’ex Ilva fa tremare i polsi a chiunque.

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