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Separare le carriere per salvare la giustizia

Separare le carriere per salvare la giustizia

Il nuovo progetto che prevede due percorsi ben distinti per i magistrati inquirenti e quelli giudicanti (con i relativi organi di autogoverno) già scatena le polemiche. Ma è un importante passo avanti per garantire imparzialità nei processi. E il sorteggio frenerebbe lo strapotere delle «correnti» nella categoria.


Viste le ultime novità a cavallo tra giustizia e politica, probabilmente, Silvio Berlusconi si sarà messo a sorridere da dietro una nuvoletta. Era stato proprio lui, il fondatore di Forza Italia, a parlare per primo della necessità di creare una netta distinzione tra magistratura inquirente e giudicante, come vorrebbe fare l’ultima riforma costituzionale presentata lo scorso 29 maggio dal governo Meloni. La tesi era contenuta nel primo programma elettorale di Forza Italia, presentato nel febbraio 1994. Nel capitolo dedicato alla giustizia, curato dal futuro ministro Alfredo Biondi e da alcuni giuristi liberali tra i quali Giuseppe Di Federico, si leggeva che carriere e funzioni dei pubblici ministeri dovessero essere «separate» da quelle dei giudici.

La tesi nasceva dalle sempre più evidenti storture della controversa «rivoluzione giudiziaria» di Mani Pulite, iniziata esattamente due anni prima, nel febbraio 1992. E il nuovo Codice di procedura penale, a sua volta varato alla fine del 1989, iniziava a mostrare uno dei suoi peggiori punti di debolezza proprio nella eccessiva vicinanza tra Pubblici ministeri e Gip, i giudici delle indagini preliminari. Già allora l’esperienza di moltissime inchieste segnalava, con la concretezza e la forza degli atti giudiziari, che troppe ordinanze e sentenze erano incredibilmente appiattite sulle tesi della pubblica accusa.

Del resto, solo in quei primi anni di Mani Pulite s’era iniziato a capire che i Pm e i Gip erano non soltanto colleghi di toga, tecnici del diritto usciti dai medesimi canali di formazione, ma erano anche persone che lavoravano in uffici vicini, e con quella stessa contiguità spesso si frequentavano come amici, e si davano del tu, sentendosi parte integrante dello stesso sistema. Tanta vicinanza rendeva difficile evitare confusione di ruoli, complicità e perfino cedimenti. In quegli stessi anni s’iniziò a comprendere, poi, che a rafforzare e a cementare ancor più le inclinazioni e i comportamenti processuali di sostituti procuratori e giudici era l’inestricabile intreccio d’interessi che si realizzava nel Csm, il Consiglio superiore della magistratura: troppo spesso le decisioni prese lì dentro su nomine, promozioni e sanzioni disciplinari si basavano sugli accordi sommersi e sugli scambi tra le correnti organizzate. E quelle correnti erano le stesse per tutti i magistrati, inquirenti e giudicanti. Quel poderoso groviglio di ruoli, consuetudini e interessi spiccioli, insomma, non poteva che spingere le due categorie a concordare su una tesi accusatoria, sui motivi di un ordine di custodia cautelare, sull’interpretazione di un’intercettazione. Con tanti saluti alla «terzietà» del giudice, e alle regole del giusto processo.

Questo era lo stato della giustizia nel 1994, ma da allora la politica ha saputo solo discutere e dividersi. E in trent’anni nulla è cambiato, se non in peggio. L’unico tentativo di separazione delle carriere risale al maggio 2011, quando l’ultimo governo Berlusconi riuscì a varare una proposta di riforma costituzionale che però fu presto bloccata in Parlamento. Quella riforma prevedeva due carriere separate tra magistrati inquirenti e giudicanti, e che a tenerli ben divisi dovessero provvedere due distinti Consigli superiori della magistratura, mentre i procedimenti disciplinari avrebbero dovuto essere affidati a una terza Corte. Nel 2011 il governo Berlusconi ipotizzava che i membri togati dei due Csm fossero «la metà» del totale, quindi sarebbe aumentato il numero dei membri eletti dal Parlamento. Per ridurre lo strapotere delle correnti, inoltre, il progetto prevedeva che i membri togati fossero scelti da un «canestro» di nomi estratti a sorte tra tutti i magistrati italiani.

Lo stesso criterio di elezione valeva anche per la Corte di disciplina, anch’essa suddivisa tra magistrati inquirenti e giudicanti. La riforma cadde nel novembre 2011, assieme al Cavaliere. Il progetto Nordio si distingue da quello di 13 anni fa per poche cose: è diverso il nome della nuova corte disciplinare, che l’attuale ministro chiama «Alta Corte», e il numero dei membri togati dei due Csm resta più alto, due terzi del totale. Anche il nuovo disegno di legge, però, prevede che vengano eletti con un sorteggio. Può sembrare cervellotica, se non disperata, l’idea di abbandonare un sistema elettorale tradizionale per il Csm, per passare a un meccanismo basato sul sorteggio. In realtà di sistemi elettorali ne sono stati tentati parecchi, ma senza successo. Così il sorteggio oggi resta l’ultima spiaggia. E ha autorevoli sostenitori: tra loro c’è Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte costituzionale, che nel febbraio 2022 aveva detto: «Se non si trova il coraggio di tagliare radicalmente il legame con gli interessi delle correnti, l’unica strada è il sorteggio temperato». Due anni fa Baldassarre ipotizzava «una votazione su base proporzionale che preveda un numero almeno doppio di eletti, e poi un sorteggio tra loro».

Accantonata la soluzione del sorteggio «temperato», che comunque garantirebbe alle correnti un potere di scelta sui candidati, il ministro Nordio oggi propone che i consiglieri togati del Csm vengano «estratti a sorte», senza specificare come: servirà, insomma, una legge ordinaria. Per cercare di smorzare la contrarietà corporativa del sindacato dei magistrati, che ha già indetto primi scioperi – e su consiglio del Quirinale, cui il disegno di legge è stato presentato in anteprima – lo stesso meccanismo del sorteggio è stato previsto anche per la componente dei membri «laici» del Csm, quelli eletti dal Parlamento. Il disegno Nordio affida a una futura legge di attuazione le competenze dell’Alta Corte: il progetto specifica solo che dovrà avere una durata di quattro anni e dovrà essere composta da 15 membri, cioè «sei magistrati giudicanti e tre requirenti», più tre membri nominati dal capo dello Stato tra docenti universitari di giurisprudenza e avvocati di lungo corso, e altri tre estratti a sorte da un elenco compilato dal Parlamento.

Il vero problema, adesso, è il tempo. Basterà quel che resta della legislatura, cioè meno di tre anni e mezzo, perché la riforma costituzionale possa essere approvata due volte alla Camera e due al Senato? E si riuscirà a far sì che ognuna delle seconde letture ottenga il voto favorevole dei due terzi dei deputati e dei senatori? Chissà. In caso contrario, è certo che la riforma dovrà superare anche lo scoglio finale di un referendum. Per proporlo, alle opposizioni, non servirà nemmeno raccogliere 500 mila firme, perché basterà la richiesta di un quinto dei membri di una delle due Camere, cioè 80 deputati o 40 senatori, o di cinque consigli regionali. Insomma, la strada è in salita. E dalla sua nuvola, a questo punto, Berlusconi avrà forse iniziato a scuotere la testa.

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