Il ritorno a un’illusoria «età dell’oro» imperiale, a un’identità vittoriosa. Così, nel romanzo Gente d’agosto, lo scrittore traccia un ritratto del suo Paese e di un popolo che, attraverso guerre e carestie, è sempre riuscito a rialzarsi. Ed è (anche) su questo tratto che conta Vladimir Putin.
«L’ideologia marxista-leninista in Russia è svanita e difficilmente tornerà, ma l’immaginario sovietico come sintesi dei suoi simboli e delle sue forme è ancora vivo: le canzoni, i film, i ricordi, l’architettura. Non sono più un omaggio a Lenin o Stalin, ma alimentano il risentimento, la sensazione illusoria che un tempo ci fosse l’età dell’oro, il grande Stato rispettato dal mondo intero con la sua cultura vittoriosa. Non c’è più l’Urss, ma l’essenza sovietica, la sua sostanza, sono rimaste». A dirlo, in questa intervista a Panorama, è Sergej Lebedev, scrittore e intellettuale russo certamente non allineato, che ha indirizzato la sua ricerca di autore a quel recupero della memoria che sembra un esercizio molto praticato nei Paesi ex-comunisti. Se nel suo primo romanzo – I confini dell’oblio – uscito in Russia nel 2011, la macchina del tempo riportava al tragico periodo staliniano e al mondo sommerso e cancellato dalle cronache dei gulag, con Gente d’agosto, pubblicato in Russia nel 2015 e di recente dall’editore Keller in Italia, siamo negli anni Novanta, periodo di grandi speranze e illusioni che segue la caduta dell’impero sovietico.
Ma come forse scriverebbe ad altre latitudini Tomasi di Lampedusa,
tutto doveva cambiare perché non cambiasse nulla. Dalla zarismo oppressivo e crudele di fine Ottocento agli ideali e le utopie della più grande rivoluzione e al suo tirannico regime, per Lebedev la cruda verità, confermata anche dalla guerra contro l’Ucraina, che lo scrittore segue da Berlino dove vive da diversi anni, è che l’Urss non è mai morta. Certo, in quell’agosto 1991, quando viene abbattuta nella piazza della Lubjanka a Mosca la statua di Feliks Dzeržinskij, famigerato fondatore della Ceka, la polizia segreta, il «sol dell’avvenir» sembra finalmente illuminare una terra come nessun’altra martoriata da guerre, rivoluzioni, carestie. Ma, ancora una volta, è un accendersi fatuo di speranze e promesse che non riescono a concretizzarsi. L’Urss sopravvive, nella sua essenza e nei suoi emblemi, nel rimpianto per la grandeur imperiale che incuteva timore e rispetto anche ai suoi più acerrimi nemici, in quell’istinto di sopravvivenza che è, in definitiva, secondo lo scrittore, il vero Dna del popolo russo, capace di piegarsi nelle difficoltà per poi rialzarsi, chiunque sia l’oppressore, Napoleone o Hitler. Insomma, ha probabilmente ragione il premio Nobel Svetlana Aleksjevic a parlare per la Russia post-sovietica di un «tempo di seconda mano», una versione depotenziata e sbiadita dell’originale sovietico.
Partiamo dall’agosto 1991, evocato nel titolo del romanzo: il tentato golpe per eliminare Michail Gorbacëv fallisce e prelude alla fine dell’Urss pochi mesi dopo. Grandi speranze, subito deluse…
È vero, la sensazione era che in quel preciso momento stesse nascendo un nuovo paese, che ci fossimo già dentro e sarebbero stati sufficienti pochi sforzi per liberarci di un’eredità triste e tenebrosa. Sarebbe bastata la verità sul passato e non avremmo ripetuto gli errori di prima, la storia avrebbe imboccato una nuova strada.
E invece?
Lo Stato perse presto il «monopolio» della violenza cui le persone erano ormai abituate: prima sono apparse le bande criminali, poi sono scoppiate le guerre ai margini dell’impero, infine, come rappresaglia per l’assalto militare alla Cecenia nel 1994, gli attacchi terroristici hanno colpito le città russe. Era una forma di violenza del tutto nuova per la popolazione: assurda, arbitraria, imprevedibile. Tanto per dare un ordine di grandezza: dal 1995 fino al 2010 più di 2 mila persone sono state uccise in atti terroristici e oltre 6 mila sono rimaste ferite.
Caos, anarchia: si profila lo spettro dell’uomo forte…
Sono convinto che proprio questo «genio» irrazionale del terrore sia stato un fattore fondamentale nel creare le premesse per il ritorno di un governo di polso, favorendo l’ascesa al potere di Vladimir Putin, che ha strumentalizzato la situazione, presentandosi come un protettore e un salvatore. Ha aiutato la popolazione russa a liberarsi dal senso di colpa verso i ceceni, perché ha trovato una nuova narrazione per questa guerra. In fondo, ha seguito e fatto proprie istanze e motivazioni già usate altrove nel mondo: una guerra contro i terroristi e gli estremisti, contro la minaccia dell’Oriente islamico.
Un’ascesa, quella di Boris Eltsin e poi di Putin, vista con occhi benevoli in Occidente. Perché?
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’Occidente pensava che la principale minaccia in Russia fosse una possibile rivincita dei comunisti. Il presidente Eltsin, in passato egli stesso funzionario del Partito comunista, era considerato il custode della neonata e vulnerabile democrazia russa e gli era stato attribuito un enorme credito, anche a fronte degli errori commessi. Ma la guerra contro la Cecenia non è stata solo un errore. Era un chiaro indizio che era iniziata un’altra specie di rilegittimizzazione: non quella sovietica, ma quella imperiale, coloniale, sciovinista. Il governo di Eltsin era democratico nella forma e nelle procedure, ma imperialista nel contenuto e nella prassi. Putin alla fine ha eliminato anche forme e procedure, le ha svuotate, ma non è lui che ha avviato il processo.
Perché la caduta del regime sovietico non ha portato a imboccare veramente la strada della democrazia, come negli altri Paesi satelliti?
Nel romanzo io do questa risposta: non c’è mai stato pentimento, nessuno che si sia dichiarato colpevole davanti a se stesso e al mondo. Ma non si tratta solo di questo. Le nazioni del cosiddetto blocco socialista erano state occupate dall’Urss per quarant’anni. Avevano una tradizione di statualità prima dell’occupazione, di indipendenza. Era naturale per loro sbarazzarsi delle forze di occupazione e tentare, con diversi gradi di successo, di costruire una democrazia. Ma la Russia non era occupata, è stata forza occupante per secoli. Riformare, o trasformare, il nucleo stesso del regime totalitario è un compito molto difficile. Polonia o Ungheria sono state in grado di sbarazzarsi dei governi sovietici, così come le ex repubbliche dell’Urss, ma la Russia non è stata in grado di separarsi da sé stessa. Di fronte al crollo di un mondo molte persone si sono aggrappate al passato con la disperazione del condannato. Come scrivo nel romanzo, il profumo del pane e del filo spinato erano inseparabili, alla gente i simboli dell’Urss davano una struggente sensazione di essere a casa.
I russi di oggi, ha scritto in un articolo, sembrano non essere interessati alla storia, nemmeno alla guerra in Ucraina. E così?
La peggiore illusione dei tempi della perestrojka era che fosse sufficiente garantire determinate libertà politiche, di pensiero, di parola, di religione, per passare a un’economia di mercato, e in modo quasi magico il popolo si sarebbe trasformato, facendo quello che andava fatto. Ebbene, la storia ci ha insegnato che non è così, ed è stata una lezione dolorosa. Coloro che sono abituati a vivere senza una soggettività politica non diventeranno mai sostenitori della democrazia e non apprezzeranno le libertà che gli sono state concesse gratuitamente. Il cittadino russo convive con la necessità della sua sopravvivenza. Le difficoltà economiche possono innescare una protesta più ampia, ma non sarebbe comunque una protesta morale. Lo avevamo già vissuto durante la perestrojka. Le persone erano stanche delle code, della scarsità di cibo, della povertà, delle poche forniture, chiedevano cambiamenti, ma ciò non significa che fossero pronte ad accettare la responsabilità dei misfatti del periodo sovietico. Ora in Russia, nello scenario migliore, sarà lo stesso.