Antonio Rinaudo è stato uno dei pm più importanti della Procura di Torino, dove si è occupato di alcuni processi storici, dalla Tav al terrorismo fino all’incidente di Piazza San Carlo. In pensione da qualche anno, ha continuato a spendersi in incarichi pubblici d’ambito civico e sanitario, a partire dalla crisi della pandemia. «La mia esperienza in campo sanitario», spiega alla Verità, «nasce nel 2020, quando in piena crisi Covid la Regione Piemonte ha istituito un gruppo di unità di crisi con a capo un commissario ad acta, uno sanitario e uno all’area giuridica, cioè io. Qui entro a contatto con la sanità più di quanto avessi fatto nei processi a essa connessi di cui mi ero occupato». Successivamente Rinaudo, anche in forza di questa esperienza, viene nominato presidente del comitato etico locale, sempre di livello regionale. Una modifica legislativa prevede poi la nascita di 40 comitati etici territoriali per la ricerca. L’ex pm presiede quello torinese del Piemonte: ha soprattutto compiti legati alla supervisione della sperimentazione dei medicinali. Questi comitati sono poi destinati, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 (caso Cappato, per capirsi), a occuparsi anche della valutazione delle risposte alle richieste di suicidio assistito, in ossequio proprio alla pronuncia della Consulta, che allora fissò i «paletti» in presenza dei quali diventava incostituzionale procedere per aiuto al suicidio contro chi contribuisse alle richieste delle persone coscienti e libere, dipendenti da trattamenti di sostegno vitale e con patologie irreversibili ritenute intollerabili. La sentenza prevede anche la consulenza di un organo terzo indipendente e autonomo, che viene individuato nei comitati etici. L’ex pm, che studia perciò l’argomento in modo diretto da sei anni, è interlocutore privilegiato per la situazione politico-culturale che ruota attorno al tema del fine-vita, anche alla luce degli sviluppi e delle mosse degli enti regionali che questo giornale ha documentato negli ultimi mesi.
Rinaudo, anzitutto, da presidente di uno dei comitati etici piemontesi, quante richieste di suicidio assistito si è trovato a valutare?
«Nessuna. Pare dovesse arrivarne una ma il paziente è deceduto prima che venisse formalizzata. Questo ovviamente non ha impedito un profondo lavoro sul piano tecnico-giuridico alla luce delle pronunce della Corte costituzionale».
Ovvero?
«Nel 2023 ho proposto alla Regione di costituire un gruppo che formulasse delle linee guida sostenendo che l’ente, in attuazione della sentenza 242 del 2019, avesse un primo compito: occuparsi di elaborare linee guida per le strutture sanitarie, che altrimenti non sanno letteralmente cosa fare a fronte di richieste dei pazienti».
E questo lavoro come si è concretizzato?
«In un documento sottoscritto da un parterre il più possibile rappresentativo di diverse sensibilità e professionalità prossime al tema. Consiste di fatto in alcuni punti da sottoporre alle aziende sanitarie per stabilire una modalità di comportamento uniforme nei tempi e nelle azioni rispetto a pazienti che chiedano il suicidio assistito».
Può spiegarcele?
«Per esempio, stabiliscono i termini in cui debba essere formulata la domanda, quindi i tempi e le modalità di risposta della commissione sanitaria che verifica la presenza delle condizioni stabilite dalla Corte costituzionale, di quella del comitato etico che si esprime sul reale convincimento del paziente. In seguito prevede anche l’interlocuzione con l’interessato per una valutazione complessiva e l’invio in tempi definiti di una risposta, positiva o meno, da parte dell’azienda sanitaria. Nella decisione conclusiva si indica la necessità di tenere conto di eventuali obiettori di coscienza nelle strutture, e si lascia all’azienda sanitaria le scelte tecniche sul farmaco e la somministrazione».
Ma a suo avviso la sentenza della Corte costituzionale contiene obblighi per i servizi sanitari?
«A mio avviso, e ad avviso di magistrati che sono intervenuti quando le Regioni non hanno fornito risposte in tal senso, sì. Mi rendo conto si tratti di una discussione aperta. Per come la vedo io, di fatto la Corte ha costruito un diritto ad accedere, dunque occorre rispondere e in modo coordinato, altrimenti il rischio è che si abbiano risposte diverse a seconda del luogo in cui vengano effettuate le richieste».
In effetti su questo la discussione è profonda: c’è chi ritiene che la Consulta non possa “creare” diritti, e chi invece ne desume l’urgenza pratica di ottemperare ai suoi vincoli anche in assenza di un pronunciamento politico. Finché questo non avviene a livello parlamentare, però, le Regioni si stanno muovendo: la Toscana normando l’accesso al suicidio assistito in modo autonomo, il Veneto provandoci senza successo, la Lombardia approvando una pregiudiziale di costituzionalità sulla possibilità stessa di una Regione di intervenire in una materia statuale. Che giudizio dà di queste iniziative?
«L’approccio deve essere laico e oggettivo. In mancanza di una legge nazionale che normi la situazione dopo le tre pronunce della Consulta che ormai hanno aperto il varco, si è creato un vuoto. Abbiamo un potenziale diritto e, come ho detto, di fatto un “obbligo” in capo alle strutture sanitarie di rispondere. L’associazione Luca Coscioni si è infilata in questo vuoto con una sorta di provocazione istituzionale, e come noto ha raccolto le firme per leggi regionali. Dico “provocazione” perché quell’associazione sa che a livello nazionale ci sono ostacoli determinati dalla presenza di fazioni politiche divise anche al loro interno sul tema del fine-vita, e quindi ha spostato il tiro sul piano regionale. Molte regioni hanno in effetti aderito alla richiesta, e così la questione è finita ai rispettivi Consigli regionali. A mio avviso è correttissimo l’atteggiamento formalizzato dalla Regione Lombardia: una semplice lettura della Costituzione fa capire come non si possa affrontare legislativamente la faccenda con un intervento a livello regionale: si andrebbe a incidere su un problema di carattere penale con soluzioni diverse, il che creerebbe delle zone franche rispetto al diritto: una situazione obiettivamente non accettabile nel nostro ordinamento».
Rischieremmo una sorta di federalismo penale?
«Sì, sarebbe una specie di vestito di Arlecchino del diritto e del codice penale. Senza parlare del potenziale vulnus all’articolo 117 della Costituzione, quello sulle competenze degli enti locali. E poi come fai a garantire questo diritto su base regionale? Andrebbe previsto all’interno dei Lea, i livelli essenziali di assistenza? Sarebbe un altro assurdo».
Il governo deve allora impugnare la legge toscana, secondo questo ragionamento…
«Ci potrebbe essere senza dubbio lo spazio per un conflitto di attribuzione, e non stento a credere che la Corte potrebbe cassare la legge regionale: sarebbe tra l’altro coerente con il suo stesso dettato, che esercita pressione per una legge nazionale. A mio avviso dare libertà alle Regioni violerebbe come detto l’articolo 117».
Torniamo al Parlamento, allora: scegliere di non normare è secondo lei una scelta legittima?
«No, secondo me una posizione va presa: non vedo uno spazio per non legiferare in Parlamento. O meglio, se politicamente si vuol dire che il Paese non è maturo per una legge, allora è più responsabile davanti ai cittadini dire che non c’è la possibilità di accedere al suicidio assistito nelle condizioni previste dalla Consulta. Secondo me sarebbe un salto nel buio, perché ritengo giusto adeguarsi non solo ai limiti della Corte costituzionale ma a un’esigenza manifestata da tantissime persone in un quadro che sanitariamente è mutato clamorosamente negli ultimi 30-40 anni. Mi rendo perfettamente conto della legittimità di opinioni contrarie alla mia: non siamo nel campo matematico. Ci sono valutazioni etiche e giuridiche da fare e nessuna scelta è neutra, compresa l’assenza di scelte. Anzi, neppure la legge in sé è sufficiente, vedi le Dat (disposizioni anticipate di trattamento, ndr)».
Cioè?
«Ho riscontrato personalmente grande trascuratezza su un tema appunto normato per legge, non solo tra i comuni cittadini ma anche nel personale sanitario e nelle amministrazioni. Credo che, soprattutto su tali questioni, informazione e trasparenza siano culturalmente cruciali, compresa la trasparenza sui non irrilevanti aspetti economici connessi al tema del fine vita».
Torniamo a quest’ultimo nodo. La Regione Lombardia, malgrado il voto citato in Consiglio regionale, attraverso le strutture sanitarie ha fatto accedere una paziente al suicidio assistito. Viene spontanea una domanda: se questo già oggi avviene senza un voto in Parlamento e addirittura con un pronunciamento contrario della rappresentanza politica locale, a cosa serve una legge?
«Credo serva: a tutela dei medici e degli enti, e dei pazienti, che devono avere una modalità d’azione non affidata all’arbitrio o alle sensibilità dei singoli. Proprio per questo però non bastano le linee guida, cui pure ho collaborato a stendere come ho provato a spiegare».