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Il cerchio di potere del Caucaso

Il cerchio di potere del Caucaso

Nell’enclave del Nagorno-Karabakh, contesa tra Azerbaigian e Armenia, si scaricano sempre più tensioni, e non solo legate a motivazioni etniche: è ricca di minerali e la sua posizione è strategica per le risorse energetiche. Dietro agli attori regionali, spiccano gli interessi di potenze come Russia, Turchia e Israele. I recenti scontri – e le proteste delle settimane scorse – sono segnali inquietanti.


Centinaia di dimostranti partecipano a una «manifestazione ecologista» contro l’estrazione illegale di minerali sul «corridoio di Lachin», la sola strada che unisce il Nagorno-Karabakh al resto del mondo. Agitano i loro cartelli con slogan quali «Salva la natura». Ma quella che in apparenza è una protesta ambientalista – appoggiata dal governo dell’Azerbaigian – si trasforma di fatto nell’assedio all’enclave armena. È successo nel dicembre scorso. Da allora gli scaffali dei supermercati di Stepanakert, capoluogo della regione, si sono svuotati e si parla di crisi umanitaria. L’unico accesso per cibo, forniture mediche e persone è attraverso quel «corridoio» e oggi non si trovano più né frutta, né verdura, né farmaci di base. Di fatto il Nagorno-Karabakh è sigillato. Il traffico sull’arteria di comunicazione è quasi scomparso e decine di migliaia di armeni che vivono nell’area sono tagliati fuori da ogni collegamento.

In questa piccola regione di 145 mila abitanti che si incunea nell’Azerbaigian, si intrecciano interessi economici, giochi di potere e rivalità storiche nel cuore del Caucaso, ma anche tensioni globali. Dagli anni Novanta è al centro di una guerra a bassa intensità, che di colpo esplode in scontri sanguinosi tra Armenia e Azerbaigian, con i loro rispettivi alleati, Russia e Turchia, ma non solo loro. D’altra parte, la storia del Nagorno-Karabakh è complicata quanto il suo nome. «Karabakh» è la traduzione russa di una parola azera che significa «giardino nero», mentre Nagorno è un termine russo che vuol dire «montagnoso». Gli armeni preferiscono invece chiamare l’area «Artsakh». La considerano da sempre loro e si sentono assediati dagli azeri.

La regione è remota, con un’orografia tormentata ma ricca di risorse naturali, di metalli preziosi e semipreziosi, come oro e rame. I vari attori esterni – tra i quali si annovera anche Israele – sono sensibili a uno snodo geografico come questo, che collega l’Europa e l’Asia, da dove passano oleodotti e gasdotti per l’approvvigionamento dell’Occidente. Ora, dopo una pausa di due anni, le tensioni si sono riaccese. «Molti si aspettavano che l’Azerbaigian effettuasse una operazione militare, ma Baku ha scelto una strategia diversa» puntualizza a Panorama Zaur Shiriyev, analista dell’International Crisis Group. Ecco che l’Armenia ritiene che i manifestanti ecologisti di dicembre siano una copertura, per costringere gli abitanti del Nagorno-Karabakh d’origine armena ad accettare la sovranità dell’Azerbaigian sulla regione o andarsene. Nel frattempo, le autorità del Nagorno-Karabakh legate a Yerevan hanno invocato un ponte-aereo per fornire alimentari e medicine alla popolazione. Mentre il potente ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, visto quello che sta accadendo in Ucraina, ha messo le mani avanti sottolineando che «l’arrivo di una missione civile di osservatori dell’Ue porterà a tensioni geopolitiche».

Va ricordato che con la guerra del 2020 l’Azerbaigian ha ripreso il controllo di gran parte del territorio che aveva perso contro l’Armenia nella prima guerra, negli anni Novanta. Ora Baku sta spingendo per un accordo che completerebbe la vittoria e, a sua volta, vorrebbe collegare attraverso un corridoio in territorio armeno l’Azerbaigian con la sua «exclave» di Naxçıvan (o Nakhchivan). Rivalità antiche e business contemporanei dunque si incrociano Lo scopo immediato degli azeri sembra quello di imporre posti di blocco sulla strada per Stepanakert. «Questo è il nostro territorio» ha rivendicato il presidente azero Ilham Aliyev. Ruben Vardanyan, il governatore del Nagorno-Karabakh, gli ha ribattuto: «Si tratta di vivere nella nostra patria o far parte dell’Azerbaigian». Vardanyan è un miliardario russo-armeno noto per le sue iniziative filantropiche: ha affinato la sua formazione in Italia, alla Cassa di risparmio di Torino. Una volta arrivato al potere, ha rinunciato alla cittadinanza russa e si è trasferito a Stepanakert. Ciò ha fatto insospettire gli azeri, che lo considerano una pedina del Cremlino. «E una delle richieste di Baku è che Vardanyan lasci il suo posto» conferma Shiriyev.

Il Nagorno-Karabakh è vitale per l’ex repubblica sovietica, data la rete di oleodotti e gasdotti che corre lungo il confine, teatro dei principali scontri, e che consente all’Azerbaigian di accedere ai mercati internazionali senza passare dalla Russia. In questa prospettiva, l’Europa potrebbe aumentare le importazioni del greggio da Baku, così da dipendere meno dall’energia di Mosca. Nel 2020, la produzione di petrolio azera era stimata in 716 mila barili al giorno. Quanto ad altre risorse, l’Azerbaigian ha dovuto rinunciare a diverse miniere d’oro e di rame, oltre all’accesso di importanti riserve idriche, che si trovano per la maggior parte nel Nagorno-Karabakh.

Nel complicato intreccio degli interessi, però, Baku si affida alla Russia per le forniture militari; allo stesso tempo acquista droni anche da Israele e impiega i micidiali Bayraktar turchi.

Mosca, invece, oltre che con l’Azerbaigian mantiene stretti legami con l’Armenia. Quest’ultima ha dalla sua un accordo di difesa con il Cremlino, poiché il 90 per cento della sua popolazione è di religione cristiana ortodossa. Mosca fornisce al Paese la maggior parte delle attrezzature militari e ha pure una base, quella di Gyumri. Il premier armeno Nikol Pashinyan e Vladimir Putin si sono incontrati a San Pietroburgo il 27 dicembre per ribadire il loro sodalizio a margine di una riunione del Csi, l’organizzazione composta da 9 delle 15 ex repubbliche sovietiche. Tuttavia l’Armenia ha anche un deficit geografico: non ha accesso al mare. E di fatto è isolata. I suoi confini sono chiusi sia con l’Azerbaigian sia con la Turchia. E proprio il rapporto tra questi due Paesi inserisce un ulteriore elemento di tensione. In nome della «fratellanza turca», Ankara considera il popolo azero – turcofono – parte della grande famiglia che si estende dai Balcani all’Asia centrale. Secondo fonti siriane, la Turchia avrebbe inviato a Baku mercenari dalla Siria, oltre che armamenti e consiglieri militari. Il 20 ottobre scorso, poi, Erdogan e il presidente Aliyev hanno inaugurato un nuovo aeroporto a Zangilan. In una dimostrazione «muscolare», il premier turco ha sfidato bonariamente (ma chissà fino a che punto) l’alleato azero a una gara di sollevamento pesi in un centro sportivo. Giusto per ricordare, in un clima goliardico, chi esercita il dominio nella regione. Al contrario, l’amicizia tra Ankara e Erevan è impossibile a causa degli orrori del genocidio armeno durante il periodo ottomano, che tra il 1915 e il 1919 fece un milione e mezzo di vittime. Una ferita che ancora oggi resta insanabile.

Al quadro delle alleanze bisogna aggiungere un altro importante tassello. Dalla prima guerra del Nagorno-Karabakh, anche Israele ha sostenuto Baku. Tel Aviv lo fa soprattutto in funzione anti Iran, inoltre l’Azerbaigian è il Paese musulmano più laico e consente a Israele di gestire relazioni accettabili con il mondo islamico. Intanto, il 27 gennaio scorso, un uomo armato di kalashnikov ha attaccato l’ambasciata dell’Azerbaigian a Teheran e ha ucciso il capo della sicurezza. Nelle tensioni degli ultimi giorni a Stepanakert, saranno determinanti le mosse di Mosca. In passato la Russia era il principale attore nell’area caucasica. Oggi il Cremlino è impantanato nel conflitto contro Kiev. E l’Azerbaigian vuole approfittarne. «Dopo l’Ucraina, l’Unione europea è diventata uno dei mediatori nel conflitto» conferma Shiriyev. «Allo stesso tempo, in Occidente l’atteggiamento nei confronti delle forze di pace russe (1.960 soldati schierati sul corridoio di Lachin, ndr) è diventato più negativo». In mezzo a queste spinte e controspinte, il Nagorno-Karabakh vive la sua condizione drammatica. Non si trovano più alcuni alimenti, come lo zucchero, e a stento si compra il pane. Migliaia di persone hanno protestato contro il blocco e riempito la principale piazza di Stepanakert. Inoltre, come diretta conseguenza del conflitto del 2020, hanno dovuto spostarsi in Armenia 91 mila persone. All’88 per cento donne, bambini e anziani. Le capitali Baku ed Erevan si accusano a vicenda per i gravi crimini di guerra nell’area contesa. Cioè esecuzioni sommarie, torture e mutilazioni. A pagare, come sempre, è la popolazione.

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