Tra ritardi, cantonate e sprechi, la Commissione Ue è stata bistrattata dalla Corte dei conti europea sul raggiungimento degli eco-obiettivi. Che sono a dir poco velleitari, per non parlare del loro enorme peso economico fatto gravare (quasi inutilmente) sulle spalle dei cittadini. Eppure del tutto insufficiente.
Ospite dell’Università di Tolone, la baronessa Ursula Gertrud von der Leyen s’è lanciata nel solito predicozzo: «Qui, per quasi un mese, le temperature hanno superato i 35 gradi. La scienza ci dice che possiamo ancora limitare questa drammatica trasformazione del nostro clima, ma dobbiamo agire in fretta». Orsù continentali, dunque. Ma l’evocata urgenza si limita agli apocalittici appelli. La Commissione europea guidata dalla cassandra teutonica procede con la sveltezza di un mariachi che s’è appena risvegliato dalla siesta pomeridiana.
Ritardi, cantonate, sprechi. Nelle ultime settimane, la Corte dei conti europea ha rifilato epocali manrovesci all’esecutivo di Bruxelles. Sono condensati in cinque «relazioni speciali». L’ultimo report, diffuso a fine giugno, s’intitola: «Obiettivi dell’Ue in materia di energia e di clima». Svolgimento: «Scarsi segnali indicano che le azioni intraprese saranno sufficienti per raggiungere gli obiettivi del 2030». Ovvero, l’inscalfibile dogma da cui tutto discende: la strombazzatissima riduzione delle emissioni del 55 per cento. Quell’inarrivabile quota che l’ecoprofeta Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea e arcigno plenipotenziario al Clima, qualche mese fa voleva perfino portare al 57 per cento. Già, chi offre di più? Auto elettriche, case green, carne sintetica, città blindate. A pagare, tanto, sono i soliti incolpevoli: i cittadini.
Ursula e Frans continuano incuranti ad agitare il vessillo della furibonda transizione ecologica. Ma i controllori lussemburghesi ora svelano le loro imposture. A partire dagli insufficienti danari che la Commissione investe per raggiungere il ciclopico obiettivo del 2050: la neutralità climatica. «Peanuts», direbbero gli americani: noccioline. L’Ue spende per l’esemplare fine circa 87 miliardi di euro all’anno: meno del 10 per cento di quanto servirebbe, stima la corte lussemburghese. Che segnala anche notevoli furberie utili alla propaganda. Come non aver conteggiato i gas serra prodotti da scambi commerciali, trasporti aerei e viaggi marittimi: un mefistofelico sconto di un decimo sul totale dell’inquinamento. Per centrare spropositati obiettivi. E la compravendita tra Paesi di quote energetiche o rinnovabili, nata con lo stesso scopo? Un meccanismo pieno di opacità e «scarsa trasparenza».
Imbambolata davanti a colossali sfide, dai flussi migratori alla difesa comune, la Commissione europea ha trovato ragione di vita nel furore ambientalista. Il resto del pianeta, intanto, se ne infischia. Cina, Russia e India sfruttano le norme vessatorie per accrescere influenza e affari. Vedi lo strapotere di Pechino nel mercato mondiale delle batterie: il 76 per cento. Ancora per poco, però. Bruxelles si fa sotto. Vuole insidiare il monopolio del paese guidato dal diabolico Xi Jinping. Come svela però un’altra relazione contabile del 20 giugno 2023, pure questo improbabile proposito sembra affossato.
L’auto elettrica è una delle ossessioni dello sciamano Frans, che prima s’abbigliava come un travet e ora sfoggia un barbone da guru. A dispetto dei voleri dei sudditi continentali e di ogni legge macroeconomica, la Commissione ha stabilito che dal 2035 saranno venduti solo veicoli a zero emissioni. Due anni fa, la Corte dei conti aveva già seppellito la chimera di un milione di colonnine in Europa entro il 2025: irrealizzabile. Difatti, siamo fermi alla metà. Adesso ai ligi lussemburghesi tocca mestamente ricordare che arranchiamo pure nella produzione di batterie. Conclusione a cui, in verità, era giunto qualsiasi scolaro delle elementari. Materie prime, aumento dei costi e agguerrita concorrenza rendono inverosimile anche questo roboante proposito. Eppure, infierisce il rapporto, le batterie sono «un imperativo strategico». L’Ue ha già investito nel settore almeno otto miliardi. Risultati: ininfluenti. E rischia di andar peggio, avverte la Corte. Viste le farraginosità per accedere ai finanziamenti, i fabbricanti potrebbero trasferirsi: negli Stati Uniti ad esempio, dove offrono massicci incentivi. Per non parlare delle materie prime: litio, manganese, cobalto, grafite. L’Ue dipende da pochi paesi, con i quali non ha nemmeno «accordi commerciali»: Australia, Sud Africa, Gabon e Cina.
Così, da «un lato si prevede che entro il 2030 circoleranno sulle strade europee circa 30 milioni di veicoli elettrici». E dall’altro «l’Ue non valuta se la sua industria delle batterie sia in grado di soddisfare tale domanda». Tanto che, nella relazione, si arriva a ipotizzare il più intollerabile degli smacchi per Ursula e Frans: posticipare lo stop alla vendita dei motori termici, fissato nel 2035. Oppure accettare la funesta dipendenza, com’è già successo con il gas, «con grave danno per l’industria automobilistica e la relativa manodopera». Il responsabile dell’audit per la Corte, Annemie Turtelboom, avverte: «C’è in gioco la sovranità economica dell’Unione». Il messia Frans sembra aver colto, con qualche anno di ritardo, la devastante antifona. Durante una visita a Pechino, candidamente ammette: «Sono convinto che la Cina voglia andare nella giusta direzione, ma allo stesso tempo è anche vero che vengono aperte altre centrali a carbone, e questo sembra essere in contraddizione». Sembra? La Cina è già il maggior responsabile dell’emissione di gas serra. Non potrà che andar peggio. E mentre Pechino se ne impipa, Bruxelles stanga i cittadini e imprese per inseguire velleitari primati.
Il vulcanico Frans, però, non demorde. Ripartiamo dall’economia circolare: «Ridurrà la nostra dipendenza dalle importazioni». Giustissimo: bisogna investire in business e prodotti destinati a rigenerarsi. E la solerte Commissione, come sempre, non lesina: dal 2016 al 2020 ha stanziato ben 10 miliardi di euro per la nobile causa. Ancora una volta però i cerberi lussemburghesi eccepiscono. In un altro report, pubblicato due mesi fa, compendiano: «Le strategie e i finanziamenti dell’Ue hanno avuto finora un modesto impatto sulla transizione verso l’economia circolare». Così, pure in questo caso, l’ottimo proposito di riciclare entro il 2030 il doppio dei materiali del decennio precedente diventa burletta. Tra il 2019 e il 2021, lungi dal diminuire come strombazzato, la quota è addirittura diminuita dello 0,1 per cento. «L’azione dell’Unione europea è stata finora impotente, purtroppo la transizione circolare è quasi a un punto morto» è il commento serafico che giunge dal Lussemburgo.
Ma il saggio Frans non demorde. Incurante dei clamorosi insuccessi, il commissario al Clima rilancia con intenti sempre più iperuranici. Vedi l’annuncio dello scorso febbraio: i nuovi camion, promette Timmermans, dovranno quasi dimezzare le emissioni entro il 2030. Qualche settimana più tardi, implacabile, la Corte pubblica una relazione speciale sull’argomento. Metaforica conclusione: «Il cammino dell’Ue verso la riduzione del trasporto merci su strada è ancora lungo». Eufemismo: «I valori-obiettivo nell’ottica di renderlo più ecologico, non sono stati né definiti in modo efficace né monitorati in modo specifico». E anche in questo caso, le favolose previsioni della Commissione sono sbertucciate. Stimava che il traffico merci su rotaia sarebbe aumentato del 60 per cento tra il 2005 e il 2030. Invece, nell’ultimo decennio, è cresciuto solo dell’8 per cento. Malgrado i generosi investimenti, ovviamente. Che diverranno sontuosi con il Next Generation.
Eppure, nonostante lo sfacelo, i nostri governanti hanno perfino tentato di catechizzare i Paesi meno sviluppati con la roboante «Alleanza mondiale contro il cambiamento climatico». Sono stati destinati alla causa 729 milioni. Risultati? Impalpabili. «I traguardi raggiunti non si sono rivelati all’altezza delle ambizioni» riassumono gli esperti contabili. Scarso impatto. Benefici limitati. E costi inspiegabili: o meglio, sprechi leggendari. In Africa sono stati impiegati 2,4 milioni per workshop e conferenze, mai preventivati. A Cuba hanno comprato veicoli agricoli, undici autocarri, una jeep, un’altra monovolume, tre automobili e tredici motociclette. Con la Corte che si domanda, con una certa retorica, «se tali costi fossero necessari o ragionevoli». Mentre in Etiopia la spesa per inviare personale sul posto è più che raddoppiata: 1,3 milioni di euro, usati per remunerare «senza ragionevolezza» stoici evangelisti green. Insomma, per strapagare i discepoli inviati a diffondere il verbo. Stavolta l’Unione europea, visto il fallimento, ha sospeso il programma di aiuti, seppur con un certo rammarico. E a Bruxelles, sempre più spesso, s’ode il dilemma: quante iperboliche trovate di Ursula e Frans faranno la stessa fine?