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Trump atto secondo

Trump atto secondo

I sondaggi lo danno in netto vantaggio. Questo nonostante i processi in cui è imputato, che paradossalmente sembrano rafforzarlo con l’opinione pubblica. Intanto Joe Biden, che può vantare buoni risultati in economia, è sempre più in difficoltà per gli errori in politica estera e per la sua immagine appannata. Così l’ex presidente ipoteca la candidatura per il voto di novembre. Obiettivo: «Rifare grande l’America». Una volta di più.


Pareva impossibile, anche solo pochi mesi fa. Invece oggi tutto lascia presagire che Donald Trump, alla fine, vincerà la sua terza gara per la Casa Bianca. Se non accadrà nulla d’imprevisto – e di sconvolgente – le presidenziali del prossimo novembre potrebbero davvero chiudersi con un trionfo sia per lui sia per i repubblicani, e il vecchio Donald tornerà a occupare con armi e bagagli la Sala ovale. Questo, almeno, è quanto gridano gli ultimi sondaggi. Ma per cogliere concretezza e vicinanza del risultato basta dare un’occhiata alle mappe elettorali, che da settimane dipingono sempre più di rosso vivo – il colore del Partito repubblicano – la stragrande maggioranza degli Stati americani. Le poche macchie blu favorevoli ai democratici, ormai, sono relegate in due sottili strisce verticali, agli estremi del Paese: la California, l’Oregon e Washington lungo la costa occidentale, mentre su quella orientale restano azzurri gli Stati di New York, del Vermont, del New Jersey e pochi altri. In mezzo, come scogli isolati in un mare in tempesta, occhieggiano in blu soltanto il Colorado e l’Illinois. In forse sono il Nevada e il New Mexico. Tutto il resto dell’America, oggi, pare definitivamente schierato con Trump. Che come un novello Conte di Montecristo, a 77 anni (e in ciò assai più simile all’abate Faria che a Edmond Dantès), è più che pronto al gran ritorno e alla vendetta contro traditori e nemici.

Tutto sembra congiurare a suo favore. Il suo concorrente Joe Biden, che di anni ne ha 81, nei sondaggi gli è indietro di circa 10 punti. Lo certifica la media delle ultime rilevazioni, pubblicata a metà maggio dal centro demoscopico Rasmussen. Il tasso di approvazione di Biden, del resto, è ai minimi storici: oggi meno di quattro elettori americani su dieci apprezzano il suo operato, mentre il 59 per cento disapprova tutto quel che fa e il 48 lo disapprova addirittura «con forza». Negli ultimi mesi la negatività contro Biden s’è impennata e ha raggiunto un picco storico: l’insofferenza verso di lui supera di un punto perfino quella che gli americani manifestavano nei confronti di Richard Nixon nel luglio 1974, un mese prima che «Tricky Dick» («Ric l’imbroglione», così viene ricordato Nixon) fosse obbligato a dimettersi per lo scandalo del Watergate.

Eppure l’economia degli Stati Uniti va più che bene. L’inflazione in aprile è tornata sotto controllo, al 3,4 per cento. La disoccupazione è bassa come non mai, al 3,7 per cento, e rispetto al 2020, l’anno del Covid, sono stati creati 5 milioni di posti di lavoro in più. Anche la produzione corre, pur se un po’ meno nel primo trimestre del 2024. Malgrado gli indici positivi, tre americani su dieci si dicono convinti che le condizioni economiche nazionali siano «cattive», e più di quattro le considerano appena «discrete». Nel 2020, l’ultimo anno dell’amministrazione Trump, 57 elettori su cento definivano la situazione economica «buona», se non «eccellente». Certo, dal 2020 l’immagine globale dell’America non è migliorata. Anzi. E uno dei motivi è che in campo internazionale Biden ha inanellato una serie di disastri. Nessuno toglierà più dagli occhi del mondo le immagini dell’ignominiosa fuga da Kabul degli ultimi marines, il 31 agosto 2021: l’Afghanistan, per l’America di Biden, è stata una disfatta militare e strategica peggiore perfino di quella subita a Saigon nell’aprile 1975.

Ma tutte le guerre, in genere, hanno mostrato l’insipienza dell’amministrazione democratica: l’invasione russa dell’Ucraina ha certificato l’impotenza decisionale di Biden, la sua incapacità di esprimere la minima deterrenza militare nei confronti di Mosca. Il presidente s’è mostrato fragile anche nella cruciale partita a scacchi con l’Iran, una delle grandi «fabbriche» del terrorismo globale, cui nel giugno 2022 Washington ha inspiegabilmente restituito 10 miliardi di dollari congelati in precedenza da Trump. In cambio di quel «regalo», Biden s’è accontentato delle vuote promesse di Teheran su un blocco del suo minaccioso programma nucleare, e anche l’improvvisa morte del presidente Ebrahim Raisi non modificherà le ambizioni militari degli Ayatollah. Secondo le ricostruzioni della Cia, tra l’altro, almeno sei di quei miliardi sono andati a finanziare il sanguinoso attacco terroristico di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023. E anche la nuova guerra mediorientale che ne è seguita, dall’invasione di Gaza in poi, s’è trasformata in una via crucis per Biden, che ha mostrato incertezza nelle relazioni a zig zag con il governo di Gerusalemme, l’unico vero alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente, e un’imbarazzante incapacità decisionale. Non per nulla, lo storico istituto di sondaggi Gallup stima che il presidente sia considerato «un leader forte e capace di decisioni» da appena il 28 per cento degli elettori. «Sleepy Joe», come l’ha soprannominato Trump, verrà ricordato soprattutto per essere stato il primo presidente ad aver sospinto la Russia nelle braccia della Cina, creando un’alleanza anti-americana tra le due super-potenze che 70 anni di politica estera statunitense erano sempre riuscite a evitare. È così dal 4 febbraio 2022 – cioè 20 giorni esatti prima dell’invasione russa dell’Ucraina – quando Vladimir Putin e Xi Jinping hanno firmato un’intesa strategica per la «reciproca assistenza in ogni campo», dove hanno dichiarato la loro avversione al mondo occidentale e alla Nato. Da allora quel patto d’acciaio è stato confermato più volte, l’ultima lo scorso 16 maggio.

Tutto questo, com’è ovvio, pesa come un macigno sulla rielezione di Biden, e gioca a favore del suo rivale. Non per nulla, Gallup oggi certifica che Trump è «un leader forte» per 57 elettori su cento, e addirittura 70 sperano che nel secondo mandato possa essere «il presidente del cambiamento». Anche le politiche favorevoli all’immigrazione si sono rivelate un boomerang per Biden: l’ingresso di quasi 12 milioni di persone negli ultimi quattro anni ha spaventato le fasce più deboli dell’elettorato, e le continue polemiche sull’aumento della criminalità hanno fatto il resto. Non per nulla, il 19 maggio Trump ha confermato il suo pieno appoggio alla «National rifle association», la confederazione dei produttori di armi che orienta una buona fetta dell’elettorato, garantendo che smantellerà le poche norme varate dai democratici contro la libera vendita di armi automatiche.

Il risultato complessivo è che Trump oggi attira oltre un quarto del voto afro-americano, e mai i repubblicani erano arrivati a tanto. Gli stessi ispanici, che nel 2020 avevano votato in maggioranza per i democratici, oggi sono divisi a metà fra Trump e il presidente uscente. Anche i giovani tra i 18 e i 29 anni sono più inclini a votare per Trump (il 46 per cento contro il 43 di Biden). In tutto questo, anche i quattro processi penali aperti contro Trump (vedere il riquadro da pagina 10) paiono incapaci di muovere l’opinione pubblica contro di lui. Non soltanto perché tre su quattro di quei processi sono sospesi per vari motivi, ma soprattutto perché – un po’ com’era accaduto in Italia nel ventennio della persecuzione giudiziaria contro Silvio Berlusconi – è sempre più evidente che la gogna messa in piedi contro il candidato repubblicano si sta rivelando un boomerang. È vero che Trump lo scorso febbraio ha subìto una pesante condanna nell’unico giudizio aperto contro di lui in sede civile, ma è altrettanto vero che sta usando abilmente le udienze, presentandosi come vittima di una aggressione: «Mi perseguitano solo perché sono candidato alla Casa Bianca e sono avanti nei sondaggi», ha detto l’ex presidente il 17 maggio, uscendo dal processo istruito a Manhattan sulle accuse della porno-attrice Stormy Daniels. E ha aggiunto: «I democratici ci hanno rubato le elezioni del 2020, ma non gli consentiremo di farlo anche nel 2024».

Il livello dello scontro con la magistratura potrebbe anche alzarsi. A metà aprile il giudice di New York Juan Merchan ha multato Trump per la decima volta a causa di un post su Truth (il social network creato nell’ottobre 2021 dallo stesso tycoon, dopo l’espulsione da Twitter-X). Il giudice aveva avvertito l’imputato che in caso di nuove violazioni alla consegna del silenzio, la corte avrebbe «seriamente considerato l’ipotesi di una sanzione carceraria». Un mese fa Trump aveva rimosso il post incriminato, ma ora molti credono che possa ripensarci e violare l’ordinanza del giudice. Anche un arresto, dopotutto, potrebbe portargli voti.

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