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Sorvegliati con l’occhio di Pechino

Sorvegliati con l’occhio di Pechino

Dopo le oltre mille telecamere che un’azienda cinese ha installato negli anni scorsi in moltissime procure del Paese, è la volta del luogo-simbolo della politica italiana. A Palazzo Chigi sono entrati in funzione 19 modelli sofisticati, che registrano e analizzano gli accessi, teoricamente anche a disposizione della società della Repubblica popolare che li ha forniti. Un acquisto autorizzato da Giuseppe Conte che per ora non è stato messo in discussione dal nuovo esecutivo.


Gli inglesi, giustamente, si preoccupano. Da mesi le agenzie dell’intelligence britannica premono perché il governo di sua maestà limiti la diffusione delle più intrusive tecnologie cinesi. Vogliono impedire atti di spionaggio, ma anche solo evitare che i dati sensibili di milioni di inglesi possano finire nella stessa rete, occulta e occhiuta, che da anni nella Repubblica popolare registra e archivia movimenti, comportamenti, manifestazione delle idee e perfino acquisti di un miliardo e mezzo di ignari sudditi.

Si preoccupano, gli inglesi. Non è bastato che a luglio 2020 il premier Boris Johnson bandisse il colosso cinese Huawei dalla rete di telecomunicazioni per il 5G, il nuovo standard per cellulari e wi-fi. Di recente il Financial Times ha denunciato che Huawei e un’altra casa cinese, la Hikvision, forniscono decine di città britanniche con i loro strumenti per la gestione del traffico e la videosorveglianza sui mezzi pubblici: apparecchi che la Fcc, la Federal communication commission statunitense, a metà marzo ha definito (testualmente) «una minaccia alla sicurezza nazionale e un rischio inaccettabile per la sicurezza e l’incolumità delle persone».

Non è proprio una novità. Già nel 2017 la sola Hikvision, il cui azionista di riferimento è il governo cinese, secondo il Times controllava almeno il 14 per cento del mercato britannico della videosorveglianza, con 1,2 milioni di telecamere installate per ogni dove. Oggi nessuno sa quante siano. Londra ha da poco acquistato anche sistemi di controllo urbano realizzati da altri fornitori cinesi finiti nel mirino di Washington per sospetti legami con l’Esercito popolare di liberazione. La domanda è: quei sistemi sono sicuri?

Gli inglesi si agitano per gli occhi puntati da Pechino sui loro autobus e sulle loro strade. Gli americani li vietano. Noi italiani, invece, alla Cina garantiamo in totale serenità addirittura l’accesso alla nostra presidenza del Consiglio. Nell’estate 2020, quando ancora governavano Movimento 5 stelle e Pd, Giuseppe Conte ha fatto acquistare a Palazzo Chigi un buon numero di terminali ipertecnologici per il controllo degli accessi. Nome in sigla ASI7223X-A-T1, dallo scorso 30 settembre 19 «telecamere con rilevamento termografico» prodotte dalla Dahua Technology, un’altra delle società cinesi che la Fcc americana ha da poco inscritto nella sua «lista nera», campeggiano sui tornelli all’ingresso dell’edificio e vivisezionano il volto di chiunque entri.

Sul sito della filiale italiana dell’azienda si legge che, grazie a un sofisticato meccanismo che integra «telecamere ibride» e sistemi di rilevamento termografico, i 19 apparecchi «effettuano uno screening automatico e preventivo della temperatura cutanea di ministri della Repubblica, funzionari, personale e visitatori». Ovviamente, i terminali offrono anche «la funzione di riconoscimento facciale, con la possibilità di registrare i volti in liste Vip».

Geniale, no? L’identità di chiunque entri nel palazzo del nostro governo viene immagazzinata in un potente archivio informatico, teoricamente a disposizione di una società cinese di cui gli americani ritengono rappresenti «una minaccia». E mentre dal 2017 esperti di hackeraggio e tecnici della National security agency americana sostengono che le telecamere di sorveglianza prodotte da Dahua sono in grado d’inviare in Cina tutti i dati raccolti attraverso «porte informatiche» nascoste, in Italia nessuno si agita. È vero che Conte è uscito mesi fa da Palazzo Chigi e i visori cinesi non sono più un suo problema, ma anche il resto della politica non ha alzato un sopracciglio.

L’unico a preoccuparsi delle 19 telecamere Dahua è stato un senatore leghista, Simone Bossi, che lo scorso 9 aprile ha presentato un’interrogazione per chiedere al nuovo governo di Mario Draghi se almeno sappia quel che accade in casa sua: finora non ha ricevuto una risposta. Ma non è un caso isolato. Perché oltre mille telecamere della Hikvision da due anni sono penetrate nel cuore dei nostri tribunali, precisamente nelle 140 procure della Repubblica. È accaduto grazie a un appalto del 2017, quando la riforma varata dal ministro piddino della Giustizia, Andrea Orlando, stabilì che i nuovi «Centri per le intercettazioni telefoniche», nevralgiche strutture poste a protezione delle registrazioni giudiziarie, fossero dotati d’impianti di controllo e di videosorveglianza. È stata la rivista di tecnologia Wired a scoprire che il ministero aveva acquistato 1.105 telecamere dalla casa cinese, che le ha anche installate e ne ha curato la manutenzione. Interpellata da Wired, Hikvision ha assicurato che le sue telecamere «sono progettate soltanto per proteggere comunità e proprietà».

L’azienda dice sicuramente il vero. Apparentemente, però, nessuno fin qui ha mai verificato se riescano a fare altro. Anche stavolta, l’unica a porsi interrogativi è stata una parlamentare, in questo caso dei Cinque stelle, nel giugno 2017, quando ancora era all’opposizione: la deputata Arianna Spessotto ha chiesto alla presidenza del Consiglio retta da Paolo Gentiloni se le telecamere della Hikvision, «società nata da una costola delle attività commerciali dell’Esercito cinese», potessero rappresentare «un rischio per la sicurezza pubblica nazionale».

Nessuna risposta. Eppure da anni i servizi d’intelligence occidentali segnalano che Pechino usa in modo spregiudicato le più avanzate tecnologie di videosorveglianza: i sistemi di riconoscimento facciale sono stati impiegati di recente dal regime cinese nella repressione dei manifestanti per la libertà a Hong Kong e per il controllo poliziesco della minoranza musulmana uigura nello Xinjiang, che in buona parte è stata confinata in lager. Nella relazione del 2019, anche il nostro Copasir, il Comitato parlamentare per il controllo sui servizi, ha mostrato di sapere che in Cina la legge obbliga tutte le loro imprese a «fornire supporto alle autorità di pubblica sicurezza, all’esercito e alle agenzie d’intelligence».

Quindi, se mai il governo di Pechino dovesse chiedere di fornire dati anche riservati a una qualsiasi azienda cinese attiva in Italia, questa non potrebbe sottrarsi alla richiesta. Forse sarebbe il caso che qualcuno cominciasse a preoccuparsene.

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