Il nostro Pianeta è malato, ma non è una buona ragione per essere pessimisti. Anche se le nuove generazioni dovranno cambiare il modo di vivere per tutelarlo. Partendo dalle limitazioni al consumo di suolo, dalla protezione degli oceani e da un uso ragionevole della plastica.
«Una sola Terra» («Only One Earth») è lo slogan della Giornata mondiale dell’ambiente che si celebra il 5 giugno di ogni anno. Vuole essere un monito: questo è l’unico pianeta davvero vivibile al quale la specie umana ha accesso. Occorre dunque preservarlo per noi stessi e le generazioni future. Fu proprio per sensibilizzare la popolazione globale su questo obiettivo che nel 1972 le Nazioni Unite, sotto la guida del United Nations Environment Program (Unep), istituirono la Giornata mondiale dell’ambiente riuscendo a coinvolgere circa 150 Stati su temi che variavano di anno in anno. Quello del 2024 è: «Ripristino del suolo, desertificazione e resistenza alla siccità», tre problemi strettamente connessi e alla ribalta della cronaca, con l’intensificarsi e l’estendersi lo scorso anno dei periodi siccitosi in molte regioni, soprattutto nel Nordafrica. Ma una celebrazione è sempre un’occasione per fare il punto sulla situazione. Dunque, come sta la Terra? È malata, certo. Ma non c’è una buona ragione per essere pessimisti, sebbene la nuova generazione debba cambiare modo di vivere per invertire il decorso della malattia. Solo così potrà avviarsi a costruire un mondo diverso, più equilibrato, non necessariamente peggiore di quello attuale. Ispirati da questa forma di ottimismo facciamo il punto su cosa dovremmo concentrarci per risolvere i problemi che gravano sull’ambiente.
Partiamo dal suolo, il tema del 2024. Secondo dati del Programma per lo sviluppo globale dell’Università di Oxford, oggi la metà delle terre libere da ghiacci e deserti è utilizzata per tre quarti dal pascolo e un quarto dall’agricoltura, nel complesso un’estensione superiore alla superficie totale del pianeta ricoperta dalle foreste. A fronte di questo enorme investimento di suolo non ricaviamo abbastanza, e cioè il 18 per cento dell’apporto calorico e il 37 per cento delle proteine, per giunta non equamente suddivise su tutta la popolazione mondiale. Abbiamo quindi due esigenze: diminuire quanto più possibile la superficie che utilizziamo per agricoltura e pascolo restituendola alla natura; ricavare nutrimento dal terreno utilizzato in maniera sempre più efficiente e creare politiche capaci di distribuirlo meglio. A questo punto qualcuno potrebbe pensare che è impossibile raggiungere questi obiettivi visto che la popolazione mondiale necessiterà sempre più terra in un processo senza fine, insostenibile per il pianeta. Per fortuna le cose non stanno così. Se si guarda il grafico dell’andamento delle superfici destinate ad agricoltura e allevamento si vede che ha raggiunto un picco intorno all’anno 2000 ed è stato in diminuzione negli ultimi venti anni. D’altra parte, a fronte della riduzione recente del consumo di suolo la produzione agricola mondiale ha continuato a crescere. Questo risultato positivo si deve all’uso dei fertilizzanti che è più che quadruplicato dal 1960 al 2010 e che ora sta conoscendo una fase di stallo. Una futura diminuzione dell’uso di fertilizzanti insieme a una riduzione del consumo di suolo significherebbe essere riusciti a sopperire ai bisogni di cibo creando nel contempo spazi per ecosistemi capaci di assorbire anidride carbonica.
Più problematica la questione della perdita di biodiversità: ha ritmi decisamente troppo sostenuti. I dati però sono controversi. Secondo il Living Planet Index dal 1970 al 2022 il calo tra le specie selvatiche studiate è stato del 69 per cento. Si tratta appunto di un dato riguardante non il totale delle specie ma di quelle studiate. Il dato più verosimile è che vi sia almeno una metà della fauna selvatica in forte difficoltà. Di estinzioni di massa ce ne sono state molte nella storia ma questa è la prima volta che a esserne responsabile è l’uomo. E in un certo senso questo è un vantaggio perché dipende da noi mettere il freno. Dovremmo innanzitutto concentrarci sulle specie che sono davvero importanti nel bilancio complessivo della catena biologica e molto meno su quelle iconiche che fanno notizia. Fondamentale è anche allargare le aree protette sulla terraferma e sul mare in maniera da far prosperare la biodiversità in quei luoghi. Perciò è una notizia positiva che nel 2023, dopo 15 anni di negoziati, gli Stati membri dell’Onu abbiano raggiunto un accordo, chiamato High Seas Treaty, per proteggere l’alto mare, cioè le acque fuori dalle giurisdizioni nazionali.
Il Parlamento europeo ha firmato per la ratifica il 24 aprile scorso. Quando la maggioranza degli Stati avrà sottoscritto il trattato, questo entrerà in vigore con la conseguenza che un terzo dei mari del pianeta sarà protetto. La conservazione della biodiversità passerà anche dal nostro impegno a porre fine alla deforestazione, a combattere i cambiamenti climatici, ad aumentare la resa dei raccolti, a diminuire il consumo di carne, a usare in maniera più parca ed efficiente fertilizzanti e pesticidi e ad approvare leggi efficaci contro la dispersione della plastica negli oceani. Quest’ultima ha un profondo impatto sulla biodiversità marina. Attualmente il mondo produce 350 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica l’anno, di cui 80 milioni sono mal gestite, otto milioni finiscono nei fiumi e sulle coste, e un milione negli oceani. Si tratta dello 0,3 per cento del totale, ma lo dovremmo azzerare. Come? Innanzitutto con politiche più rigorose sull’uso della plastica nel settore ittico, responsabile in massima parte della plastica che raggiunge gli oceani. Poi è necessario coinvolgere nel contenimento dei rifiuti in plastica, oltre che cittadini e comuni, i produttori. Limitare la fabbricazione di questa materia, impedire di usarla dove non è necessario, non mescolare quella riciclabile alla non riciclabile, sono necessità non rinviabili.
Sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici sappiamo che frenare l’aumento della temperatura media globale all’1,5 per cento rispetto ai livelli preindustriali, deciso alla Conferenza sul clima di Parigi del 2015, è oramai quasi impossibile. Lo scenario più probabile è un aumento tra i 2,4 e i 2,7 gradi entro il 2100 ma è improbabile il peggiore di tutti gli scenari possibili, l’aumento di 4 o 5 gradi entro la fine del secolo. Non possiamo permetterci di andare oltre queste cifre, ecco perché la prossima generazione dovrà per forza di cose essere la prima sostenibile.