«Mai lasciare un chirurgo solo con il paziente, ti giri un attimo e lo sta già portando in sala operatoria per tagliarlo» ci racconta sorridendo il primario di un grande Pronto soccorso, che tiene alla sua incolumità e al buon rapporto con i colleghi e chiede di restare anonimo. Ma battute a parte, e gli screzi tra internisti e chirurghi che fanno parte della vita ospedaliera, in corsia il problema della troppa chirurgia esiste da sempre. E può avere conseguenze pesanti sia sulla qualità di vita dei pazienti che sulle finanze pubbliche. I dati e gli studi sono trasversali, interessano quasi ogni tipo tra gli interventi più comuni e non riguardano solo l’Italia, bensì tutti i Paesi occidentali.
Dalle protesi all’anca alle ernie del disco, dagli interventi alla tiroide all’asportazione dell’utero fino alla colecistectomia o alla chirurgia bariatrica per perdere peso (anche se ormai esistono farmaci efficaci che possono aiutare gli obesi senza il ricorso al bisturi), non c’è quasi campo chirurgico che non sia in crescita. Tutto appropriato, frutto di migliori screening e attenzione alla salute? Oppure molti di questi interventi potrebbero essere evitati non fermandosi al primo parere? «Per essere sicuri di poter valutare correttamente le opzioni, è fondamentale affidarsi a centri ben strutturati» avverte Alberto Benetti, direttore di Medicina interna -Alta complessità dell’Ospedale Niguarda di Milano. «Questo perché nella medicina di oggi l’approccio al paziente e alla patologia deve essere sempre multidisciplinare. Un malato va valutato nella sua globalità, da un’équipe dove sia presente il chirurgo, l’internista, il medico dell’emergenza e l’anestesista, per capire nel dettaglio il rapporto rischio-beneficio. Per esempio, un intervento potrebbe essere tecnicamente fattibile in un malato che però magari non sopporterebbe durata e intensità della chirurgia, o non avrebbe un tale giovamento in termini di qualità della vita da giustificare un’operazione. La multidisciplinarietà garantisce la massima appropriatezza».
Peccato non sia sempre così facile. Il Piano nazionale esiti redatto da Agenas, compendio delle attività di cura svolte ogni anno in Italia, ci dice che nel 2023 sono state effettuate quasi 60 mila isterectomie (asportazioni totali dell’utero) con un aumento del 10 per cento rispetto al 2022. L’operazione viene eseguita non solo in caso di carcinomi, ma anche per fibromi benigni. «Molta responsabilità è da imputare alla “medicina difensiva”» afferma Antonino Trovatello, primario di Chirurgia generale all’Ospedale Umberto I di Siracusa. «Le donne con fibromi all’utero, totalmente asintomatici e scoperti per caso, non sono candidate all’intervento a meno che non vi sia sanguinamento o dolori e impatto sulla qualità della vita: sono patologie benigne da tenere sotto controllo. Ma se le pazienti hanno paura di un peggioramento e insistono per l’operazione, ventilando cause legali in caso di complicazioni, a quel punto il chirurgo – magari a inizio carriera e senza équipe multidisciplinare alle spalle – spesso decide di intervenire, anche senza reale indicazione».
Pochi anni fa, secondo uno studio dell’Aogoi (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani), il 75 per cento delle isterectomie era stato eseguito per patologie benigne e l’intervento era molto più diffuso nelle regioni meridionali e nei piccoli ospedali rispetto ai grandi centri del Nord Italia. Altro caso: nell’ambito delle operazioni per diverticolite, i ricercatori della Washington University di Seattle hanno calcolato che in oltre la metà dei casi si ricorre alla chirurgia anche se il paziente è al primo ricovero e presenta infiammazioni non complicate, contravvenendo alle linee guida internazionali. Insomma, la medicina difensiva pare avere un peso anche su colecistectomie (110.800 interventi in Italia nel 2023, novemila in più del 2022), ernie inguinali, calcoli al rene da rimuovere anziché attendere gli esiti delle cure, o altre procedure chirurgiche per le quali gli stessi pazienti chiedono interventi per paura di aggravarsi rapidamente.
Bisognerebbe invece – in caso di dubbi – richiedere una «second opinion», cioè un parere ad altri specialisti magari di ospedali, città o regioni differenti: pratica diffusa all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, che ora sta prendendo piede anche in Italia. «Un classico esempio è l’ernia del disco» spiega Carlo Ruosi, presidente nazionale della Società italiana di chirurgia vertebrale. «Il primo approccio deve essere conservativo, quindi noi consigliamo sempre ai pazienti, in caso venga prospettato un intervento già alla prima visita, di cercare un altro specialista per una seconda opinione. Questo perché, soprattutto nei piccoli ospedali, si riscontra a volte un’eccessiva tendenza all’operazione». Quando il bisturi coinvolge la schiena può condannare i pazienti – in caso di errori – a una vita di dolore o di disabilità, e portare anche a costi altissimi per il Servizio sanitario nazionale.
Del resto, il campo dell’ortopedia si presta a molte storture, a meno che non ci si rivolga a centri di grande esperienza. Per citare alcuni numeri: per le protesi dell’anca ci sono stati più di 131 mila interventi nel 2023 (erano 104 mila nel 2015) e per quelle del ginocchio siamo arrivati a 108 mila nel 2023 contro i poco più di 72 mila nel 2015. Numeri che potrebbero essere, certo, segnale di maggiore attenzione alla salute, ma non si può escludere che una percentuale non indifferente possa essere legata a eccessivo interventismo, rimborsi e pratiche difensive.
Altra nota dolente riguarda i noduli alla tiroide, ormai diventati quasi un’epidemia in Italia e in Europa. Ebbene, si calcola che l’intervento di rimozione sia inutile in otto casi su dieci. «Oggi l’ecografia tiroidea viene eseguita di routine, magari perché si trovano nelle analisi del sangue minime alterazioni dei valori di funzionalità della ghiandola» dice Andrea Giustina, ordinario di Endocrinologia e malattie del metabolismo dell’Università Vita-Salute San Raffaele. «Inoltre la tiroide viene anche visualizzata in esami non dedicati, come nell’ecodoppler delle carotidi. Durante questi accertamenti è frequente riscontrare noduli tiroidei anche piccoli, poi sottoposti ad ago aspirato ed esame citologico. A quel punto, se le indagini danno un’elevata probabilità di malignità si ricorre appropriatamente alla chirurgia. Ma se la probabilità è molto bassa, meglio una sorveglianza con monitoraggio ecografico».
I tumori tiroidei, infatti, sono a basso rischio di mortalità, con tassi di sopravvivenza a 20 anni superiori al 90 per cento. Il problema è che poi, ai pazienti, bisogna dire che è meglio aspettare, mentre magari sono in preda all’ansia. «È sempre molto importante spiegare, prima dell’ago aspirato, che l’esame citologico non può stabilire con certezza la malignità del nodulo ma solo indicarne la probabilità, e che meno del 5 per cento di tutti i noduli è maligno. Certo, poi c’è sempre la decisione dei pazienti» conclude Giustina. Che oggi sono sempre più disorientati, preda di fake news, passaparola e influencer. Ma se c’è di mezzo il tavolo operatorio (e ovviamente se non c’è l’urgenza impellente) la scelta deve essere sempre ponderata: non fermarsi mai al primo parere, magari di comodo perché arriva dal piccolo ospedale più vicino a casa nostra, ma informarsi, chiedere un’altra opinione, cercare i centri di riferimento. E poi, fidarsi.