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Senza padre Georg Papa Francesco è più forte ma isolato

Senza padre Georg Papa Francesco è più forte ma isolato

Le tensioni tra Bergoglio e Ratzinger. I repentini cambi nelle gerarchie a partire da Georg Gänswein. Le riforme che devono trasformare il Vaticano, ma procedono a rilento. Gli scandali, primo tra tutti la pedofilia, per cui tardano i processi. I conflitti dottrinali e le fragilità economiche. Così l’attuale pontificato vive il suo momento più difficile, col disorientamento di molti, troppi fedeli.


Per facilità, certo. Per facilità si trasforma la curia in un campo da calcio, dividendo cardinali e monsignori in due squadre. I rossi di Jorge Mario Bergoglio e i neri di Joseph Aloisius Ratzinger. I progressisti felpati gesuiti di Francesco e le orde dogmatico-conservatrici di Benedetto XVI in un derby apocalittico da fine della fede, della chiesa e quindi del mondo.

Ma è farina di grano grezzo, buono solo per il mulino dei giornali, quella appunto di dividere il Vaticano in due squadre, santi e mercanti, papalini e golpisti o appunto, ratzingeriani e bergogliani, facendo poi rientrare ogni increspatura d’onda nelle geometrie e nelle mosse dell’una o dell’altra fazione contrapposta. In realtà, la questione è dannatamente più complicata perché la rivoluzione teologica di Bergoglio oggi e la crisi della fede deflagrata con la rinuncia di Benedetto XVI rappresentano le falde più profonde e inquiete del mondo cattolico. E quando si toccano provocano tsunami imprevedibili. Nel potere temporale la cifra più evidente.

Il dopo-Bertone ancora non è iniziato. A sette anni dall’inizio del pontificato, Pietro Parolin fatica nel vedere riconosciuta la sua leadership in un posto che fu di giganti della diplomazia come Agostino Casaroli e uomini di potere asciutto e discreto, come Angelo Sodano. I due hanno regnato in curia per oltre un quarto di secolo, Parolin in autunno copre l’intero periodo retto da Bertone senza che vi sia percezione che questo sia accaduto.

La mappa del potere curiale negli ultimi sei mesi ha subito una profonda mutazione, con strappi, defenestrazioni, messe in mora di chi costituiva ormai un’asimmetria rispetto al monarca assoluto, a Francesco. E così Domenico Giani ha lasciato la Gendarmeria, il cardinale Angelo Becciu seppur non indagato è stato colpito duramente dall’urto dell’inchiesta sulla compravendita dei palazzi a Londra, e ora anche monsignor Georg Gänswein, dopo l’ultimo scivolone del libro Dal profondo dei nostri cuori del cardinale Robert Sarah, ecco che fa o gli fanno fare l’atteso passo indietro.

Tre personaggi importanti che hanno superato il crinale del successo, che costituivano entità di rilievo nel pontificato di Benedetto XVI e che ora vedono ridimensionato il ruolo. Becciu alla Congregazione delle cause dei santi deve rinunciare progressivamente alle influenze in Segreteria di Stato e nei rapporti politici con Italia (Quirinale, governo, opposizioni), Giani vede ancora molti amici in gendarmeria ma conoscerà meglio i segreti della sua Arezzo, Gänswein non è più quella indispensabile cinghia di trasmissione tra il Pontefice e il Papa emerito di un tempo. Con un inciso: queste fuoriuscite non danno rilievo a Parolin ma aumentano quello di Bergoglio, costretto a vivere i primi sei anni di pontificato tra trappole, imboscate e mimetismi.

Ora il cambio nelle gerarchie è dunque a buon punto, quello delle leggi invece tentenna con i primi irrigidimenti dell’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone oggi al vertice del tribunale del Vaticano, reduce da un paio di incontri molti franchi con il Pontefice. Del resto il Vaticano è un Paese troppo giovane in tante discipline giuridiche: basti pensare che è stato l’ultimo in Europa a introdurre il reato di riciclaggio, visto che fino a ieri l’altro pulire i soldi di tangenti e della criminalità organizzata nelle banche vaticane non costituiva nemmeno reato.

E questo rimanda all’ultimo fronte, dove Bergoglio incontra attriti ancor maggiori e la partita si fa disperata: il cambio della mentalità. E proprio l’approvazione delle norme antiriciclaggio possono costituirne un valido esempio. Creata a partire dal 2010, la norma ha subìto diverse modifiche legislative fino a poter raggiungere un profilo in linea con gli standard internazionali. Peccato che voluta dal Papa e approvata per mesi non è stata presa in considerazione come immaginato dalla comunità internazionale perché era priva di norme attuative. Insomma, si erano date le penne ma mancava l’inchiostro.

Né bisogna dimenticare che tutto questo avviene in un piccolo Stato, con particolarità che lo rendono privo di confronti. Non è solo l’unica teocrazia sul pianeta, ma è unico al mondo nella densità di interessi, proiezioni internazionali, incrocio e scontro di vedute in quella manciata di ettari tra le Mura leonine. E il monarca assoluto non è leader politico ma religioso, con priorità diverse dall’amministratore delegato di una società quotata, dal premier di uno Stato. Il cardinale che ruba è un fratello che compie peccato, per il quale nutrire misericordia.

Gli ammanchi di un ente provocano un danno di certo inferiore a quello sulla reputazione se la notizia trapelasse. Le critiche sull’indirizzo teologico vanno raccolte senza traumi per evitare i venti scismatici di antica memoria, come quelli mossi dai lefebvriani con Benedetto XVI. E così la discussione se aprire o meno ai preti sposati rimane materia di confronto sinodale senza strappi definitivi con la corposa realtà dogmatica che si fa sentire tra gli Stati Uniti e il Vecchio continente. Come la lotta alla pedofilia, vuole sì norme stringenti introdotte già dai primi giorni di pontificato ma rallenta nella loro adozione dibattimentale. Da mesi e mesi si attende il processo sui presunti abusi consumati nel pre-seminario vaticano a danno dei chierichetti del Papa, ma al momento non c’è traccia della prima udienza.

Dall’altra parte, la crisi economica, il rischio di default paventato in diversi documenti dai consiglieri di Bergoglio, a iniziare dal cardinale Reinhard Marx, farebbero premere sull’acceleratore delle riforme se non fosse che oggi come oggi la maggior libertà e trasparenza nei palazzi vaticani, una certa laicità priva di mistero nei giochi di poteri tra i rappresentanti della fede, ha portato anche ad aumento di visibilità degli scontri, con tutte le conseguenze immaginabili.

E non si pensi alle divergenze di priorità dell’Opus dei, che esce di certo ammaccato da questi primi sette anni di pontificato, rispetto al crescente feeling di Papa Francesco con la Comunità di sant’Egidio, ma si immagini se con Wojtyla o Ratzinger figure come quelle di monsignor Carlo Maria Viganò potevano avere voce e rilievo. Viganò, periodicamente, con interventi pubblici incide il bisturi della critica profonda nelle ferite aperte del pontificato, arrivando addirittura a chiedere un passo indietro a Francesco.

A parte gli aspetti dottrinali quantomeno dubbi sul fatto che un vescovo chieda le dimissioni al Papa, tutto ciò non dà forza alla Chiesa ma ne indebolisce la figura del timoniere, diventando un perfetto volano per chi vuole commissariare questo pontificato.
Quindi le accuse di Viganò sono via via strumentalizzate in una battaglia fratricida dietro le doppie porte delle sacre stanze. È come se sul Titanic, consci dei rischi imminenti, si litigasse distinguendo ruoli e responsabilità piuttosto che salvare nave e naviganti.

Anche perché sulla reversibilità della crisi della fede (che determina e si accompagna a quella delle vocazioni, del numero di cattolici, delle offerte e quindi della sostenibilità economica della struttura) non tutti sono d’accordo. Quando nelle scuole, di fronte a centinaia di studenti chiedo quanti vanno a Messa o sono credenti, ieri si alzavano poche mani, oggi pochissime.

E allora: la fede rimane un bene primario della collettività italiana o nel passaggio dalla società provinciale a quella internauta si sta frantumando come paventava proprio Benedetto XVI? E, ancora, credere che comunque a un certo punto interverrà lo Spirito santo è la giusta attesa oppure è una rinuncia irresponsabile? Se Francesco è il monarca assoluto, il tempo è davvero tiranno. Le nubi che si addensano in questi giorni sul Cupolone sono sì scure ma è l’orizzonte a preoccupare, perché sembra davvero che quell’ambizione umana al potere, quella mondanità, per usare parole care a Ratzinger, abbiano tolto visione al destino della Chiesa, patrimonio non solo dei cattolici ma di tutti.

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