Il cervello dei campioni che nel calcio difendono la porta dai tiri avversari funziona in modo diverso da quelli dei «comuni mortali». Secondo uno studio su Current Biology, hanno capacità cognitive, sensoriali e percettive superiori. Oltre a possedere una forte personalità.
Divinità, santi o supereroi, questo sono i portieri di calcio nell’immaginario collettivo. Lo dicono i soprannomi. Lo spagnolo Ricardo Zamora, tra i più grandi di tutti i tempi, era El Divino. Iker Casillas, veniva chiamato San Iker, il santo. Oliver Kahn era Der Titan, il titano. E quando ancora Spider-Man doveva fare la sua apparizione nei fumetti, il russo Lev Jašin era per i suoi tifosi il Ragno Nero Volante.
Del resto, il portiere, l’uomo solo che aspetta tra i pali, è il solo tra gli 11 a compiere miracoli alternando gesti spettacolari a lunghi minuti di sacrale contemplazione. Che cosa gli conferisca questo dono non è necessariamente la statura. La storia del calcio annovera tra i più forti di sempre una lista di altezze non esagerate, tra i quali Casillas, 184 centimetri, e Dino Zoff, con il suo metro e 82. Anzi, essere «giganti» non è nemmeno un requisito importante, dato che Francesco Quintini, altezza 1,68, esordì in Serie A (stagione 1971-1972) con una magnifica prestazione come portiere della Roma.
Riflessi pronti, senso della posizione e reattività si devono semmai a specifiche abilità cognitive e percettive che contraddistinguono i portieri e li rendono differenti da tutti gli altri giocatori in campo. Insomma, la loro mente funziona in una maniera differente. Questa è la conclusione alla quale è giunta un’analisi comparativa tra le performance cognitive di due gruppi di calciatori, una di portieri professionisti e l’altra di giocatori di altri ruoli. L’indagine, pubblicata su Current Biology, era basata su una serie di test con suoni e lampi di luce per stimare la finestra temporale entro la quale segnali sensoriali differenti venivano percepiti come uno solo. «Se un segnale luminoso e uno sonoro si susseguono in un tempo troppo breve, il cervello non riesce a elaborarli come separati» spiega Michael Quinn, ricercatore psicologo dell’Università di Dublino con un passato da portiere professionista. «Ciò che è emerso dal nostro studio è, prima di tutto, che la finestra temporale entro cui due segnali sensoriali differenti si fondono nel cervello è minore nei portieri rispetto ad altri ruoli: 116 millisecondi contro 150 millisecondi.
Significa che un flash e un suono distanziati da, poniamo, 120 millisecondi, vengono distinti solo dai portieri professionisti ma non da calciatori di altro ruolo. Secondo: i primi, al contrario dei secondi, a seconda delle necessità tendono a elaborare separatamente stimoli visivi e uditivi». Per esempio, quando un avversario tira in porta, i portieri non usano solo l’informazione visuale per determinare dove la palla andrà a finire, ma anche quella acustica, cioè valutano il suono prodotto da come viene colpita. E se chi sta tirando è coperto da altri calciatori, chi sta in porta baserà la sua reazione sull’informazione auditiva piuttosto che su quella visiva. «In un certo senso, i portieri integrano le informazioni visuali e uditive di rado. Il più delle volte, a seconda delle situazioni, si basano esclusivamente su quella specifica informazione sensoriale in grado di dare loro informazioni nel più breve tempo possibile. Se è disponibile o è più importante il suono del piede contro la palla allora il loro cervello si concentra su quello» dice Quinn. «Giocare in questo ruolo significa giostrare le informazioni multisensoriali nel modo più conveniente, separandole o integrandole, al puro scopo di determinare dove la palla andrà a finire e reagire nel tempo più breve possibile».
Portieri quali Iker Casillas e Dino Zoff, pur non essendo tra i più alti, eccellevano proprio per le loro doti percettivo-cognitive appena descritte. Sopperivano alla mancata statura con la velocità di reazione. La ricerca non fornisce una risposta se questi «talenti» vengano acquisiti con l’allenamento assiduo o siano, in un certo senso, innati. Tutto fa pensare che al momento della selezione come portieri nelle squadre giovanili, queste doti siano in una certa misura già presenti, così da consentire al candidato un vantaggio sugli altri. Successivamente, l’allenamento continuo non fa altro che rendere più pronunciate e affinare queste capacità.
Accade talvolta, sebbene raramente, che un portiere venga espulso e un giocatore di un altro ruolo debba prenderne il posto. È il caso della partita Genoa-Milan dello scorso 7 ottobre: quando il milanista Mike Maignan è stato espulso, ne ha preso il posto l’attaccante Olivier Giroud, che ha salvato la partita con un’uscita sul genoano George Puscas. L’intervento si contraddistingueva per tempismo e velocità, una qualità di fatto decisiva anche per un attaccante qual è Giroud.
C’è da chiedersi, stando alla ricerca su Current Biology, se quest’ultimo sarebbe stato capace di salvare la porta da un forte tiro calciato da un giocatore che non si riesce a inquadrare. L’episodio, tuttavia, suggerisce di quali e quante qualità necessiti il portiere. Non solo processare segnali che arrivano attraverso vista e udito in maniera del tutto differente dagli altri: freddezza, tempestività, sicurezza, senso del piazzamento, lucidità, precisione con i piedi e una personalità da vendere sono tutte qualità necessarie. E siccome quando la squadra subisce gol la colpa è sempre sua, deve anche possedere forza di sopportazione. Paga i peccati altrui. Anche per questo è santo o divinità.