La band francese che negli anni Settanta inventò il rock spaziale e fu la prima a proporre musica elettronica racconta a Panorama il nuovo disco: Time Machine. I brani sono rivisitazioni di grandi classici, dai Doors a Bob Marley passando per Piccola Katy dei Pooh.
Avevano un piede nel futuro i Rockets quando, nella seconda metà degli anni Settanta, hanno pubblicato il primo omonimo album: teste rasate, volti ricoperti di vernice argentata, outfit da astronauta e un suono che contaminava tutte le declinazioni del rock con sintetizzatori, effetti «spaziali» e voci robotiche. «Eravamo avanti» commenta Fabrice Quagliotti, tastierista e leader della band. «Forse troppo avanti… Nei Daft Punk, oggi, c’è molto dei Rockets: lo spirito, il genere musicale, la scelta di indossare il casco da robot/astronauta… Dal punto di vista musicale la differenza è che loro utilizzano i campionamenti mentre noi suoniamo tutto quello che c’è nei nostri dischi. C’è poi un dettaglio che pochi conoscono: Daniel, il padre di Thomas Bangalter, uno dei due Daft Punk, cantante e produttore il cui nome d’arte era Daniel Vangarde, ha trascorso molto tempo con noi in sala d’incisione a Parigi. Veniva spesso a seguire le registrazioni dei nostri pezzi. Ha respirato in diretta l’atmosfera che permeava i nostri primi album. Detto questo, i Daft Punk sono geniali, adoro quello che fanno. E poi hanno avuto l’intuizione di uscire con il sound giusto al momento giusto. Bravissimi» sottolinea.
Sono nati come una self made band i Rockets: «Abbiamo disegnato i costumi di scena, commissionato a un negozio specializzato il trucco teatrale color argento da mettere sul viso, immaginato dal nulla le due astronavi in vetroresina posizionate sul palco come conchiglie aperte in cui alloggiavamo, durante gli show, io e il batterista. L’immagine è sempre stato uno dei nostri punti di forza, ma anche la ragione principale per cui siamo stati musicalmente sottovalutati. Una parte della critica e del pubblico non ci ha preso sul serio. Il bello, però, è che dopo tanti anni ai concerti vengono molti ragazzi che conoscono le nostre canzoni attraverso i genitori » ricorda Quagliotti.
In Italia l’apparizione dei Rockets ottenne da subito un riscontro trionfale: dischi e singoli (su tutti On the Road Again e Galactica) in vetta alle classifiche e decine di spettacoli sold out. «Nessun Paese, nemmeno la nostra Francia, ci ha accolto come voi. Un successo incredibile e qualche bizzarria: «In un teatro di Torino alla fine dei Settanta è successa una cosa assurda: si apre il sipario e davanti a noi nelle prime file ci sono decine di ragazzi con la sciarpa nera sul viso che ci accolgono con il saluto romano. Rimaniamo allibiti e proseguiamo a suonare come nulla fosse. Forse il look con le teste rasate, la vaga somiglianza del nostro cantante con Mussolini e una chitarra a forma di croce del sole, che per qualcuno assomigliava a una svastica, hanno generato l’equivoco».
Lo stesso, che per ragioni opposte, ha trasformato il loro concerto al Palalido di Milano in un tiro al bersaglio da parte degli autonomi: bulloni, sassi, bottiglie. «A un certo punto vedo entrare i nostri tecnici con le custodie delle chitarre trasformate in ombrelli per proteggerci dagli oggetti volanti. Un disastro: il batterista colpito a una mano non riusciva più ad andare a tempo… Abbiamo suonato ancora cinque minuti e poi ce ne siamo andati. Non abbiamo mai fatto politica e nemmeno ci interessava, il nostro obiettivo era intrattenere il pubblico con un grande spettacolo».
C’è una gloriosa tradizione di cover nella storia dei Rockets: da Apache, brano leggendario degli inglesi Shadow, a On the Road Again degli americani Canned Heat, fino al nuovo album, Time Machine, in cui il Rockets sound contamina e reinventa grandi classici come Jammin’ di Bob Marley, Walk on the Wild Side di Lou Reed, Riders On the Storm dei Doors, Rebel Yell di Billy Idol e… Piccola Katy dei Pooh. «Avventurarsi in remake di brani così noti ha senso solo se si ha il coraggio di osare. Nel nostro caso si tratta di applicare il nostro universo sonoro a canzoni che tutti conoscono a memoria. Anche per questo rileggere Piccola Katy dei Pooh è stata una vera sfida, perché sulla carta non c’era nulla di più lontano dal nostro genere. Per un periodo abbiamo frequentato i Pooh perché avevamo lo stesso promoter in Italia. Organizzammo anche una partita di calcio a Milano: noi e i nostri tecnici contro i Pooh e il loro staff. Abbiamo vinto, ma soltanto perché i nostri roadies avevano fisici pazzeschi, veri armadi. Sa che cosa mi piacerebbe moltissimo? Unire le band e suonare Piccola Katy durante un loro concerto. Chissà…».