Basket e Gertrude Stein. Ovvero quando uno scrittore ama il suo cane (e ne scrive)
Oggi parliamo per un attimo di cani e scrittori famosi. Non starò a dilungarmi su quanta letteratura sia stata ispirata da cani di qualsiasi taglia, razza o colore. Per questo vi rimando alla biblioteca più vicina a casa. Vorrei fare …Leggi tutto
Oggi parliamo per un attimo di cani e scrittori famosi. Non starò a dilungarmi su quanta letteratura sia stata ispirata da cani di qualsiasi taglia, razza o colore. Per questo vi rimando alla biblioteca più vicina a casa. Vorrei fare qui solo il punto su quanto un cane possa a volte far perdere il senso delle proporzioni ai suddetti scrittori e generare così pezzi di letteratura e arte deliziosa.
Vi racconterò quindi due o tre cose che ho scoperto sul conto di Basket, il barboncino bianco di Gertrude Stein.
Basket era, possiamo dire, al centro delle riflessioni, della vita e della letteratura della scrittrice, che lo amava e trattava al pari (o forse meglio?) di una persona.
Seguono (gustosi) esempi.
Il barboncino, durante gli anni che la Stein trascorse in Francia, era chiamato da tutti Monsieur Basket. La cosa inorgogliva molto la scrittrice, che non trovava in tanto sussiegoso rispetto la minima stranezza. Il cane – anzi: Monsieur Basket – veniva nutrito a pane e zucchero ed era non solo elogiato da tutti i francesi, ma anche rispettato dai soldati tedeschi perché – lei diceva – “era un gran bel cane”.
Il fatto che fosse Man Ray in persona a fotografare il cane, di certo sembrerà una minuzia, se pensiamo che a occuparsi dell’igiene di Basket era la stessa Stein, che, mattina e sera, gli puliva i denti. Con il suo spazzolino personale, s’intende.
Per l’arrivo degli americani a Parigi, la Stein lo volle ben rasato ed elegante e lo portò ovviamente dal barbiere, perché fosse bello e “partecipasse alla gioia comune, perché con gli americani che stanno per arrivare a Parigi liberata non è giusto che l’unico cane appartenente a due americane (la Stein e la compagna Alice Toklas) non sia elegante” (da “Guerre che ho visto”, 1945). E così Basket fu tosato e imbellettato, pronto per festeggiare la liberazione e testimoniare, con migliaia di altri bipedi, un passaggio fondamentale della storia umana (e canina) del ’900.
Alla morte di Basket, la Stein si confrontò niente meno che con Pablo Picasso che – scrive lei – le sconsigliò di prendere un cane simile. “No - le disse - mai prendere due volte un cane della stessa razza. Mai. Supponiamo che io morissi, tu uscendo per strada prima o poi incontreresti un altro Pablo, ma non sarei io e non sarebbe la stessa cosa. No mai prendere un cane della stessa razza.” (da “Paris, France”, 1940).
Ma la Stein non l’ascoltò. E così ci fu Basket II, che la scrittrice in particolare amava ascoltare mentre beveva. E, diceva, dal rumoreggiare del cane con l’acqua, sapeva distinguere la differenza tra frasi e paragrafi del suo discorso. E nel tinteggiare i paragrafi Basket era molto più emotivo.
(Nell’immagine Gertrude Stein nel 1913, Credits: Flickr The Commons - George Eastman House Collection)